Le regole del contraddittorio nelle democrazie «televisive»

da Bologna

D a cosa è dipesa l’enorme difficoltà e incertezza degli ultimi giorni nell’accreditare il ministro dell’Interno Roberto Maroni alla trasmissione Vieni via con me, affinché potesse replicare alle tesi di Roberto Saviano lanciate in quello stesso spazio pubblico?
Il politologo Bernard Manin, professore alla New York University e autore del notevole Principi del governo rappresentativo (il Mulino), non avrebbe difficoltà a rispondere a questa domanda. Per lui la causa sarebbe, né più né meno, un «deficit di democrazia», essendo il contraddittorio una pratica essenziale in ogni sistema democratico, e non solo a livello di deliberazione politica. Questo, almeno, il pensiero che Manin ha argomentato ieri durante la sua affollatissima lectio all’università di Bologna, dal titolo L’avvocato del diavolo in democrazia.
Secondo Manin, la qualità (misurabile quasi scientificamente) di una democrazia la si valuta anche dal fatto che la pratica del contraddittorio sia resa possibile in ogni momento, se non addirittura incentivata. Intenzione nobile, ma faticosa: e infatti noi, oggi, abbiamo del contraddittorio solo un’esperienza anodina, volgare o spettacolarizzata. Invece, dice Manin, «perché trovi applicazione l’imperativo di ascoltare l’altra parte si dovrebbe espressamente strutturare la deliberazione in modo tale che essa si configuri come uno scontro di posizioni contrapposte». Per deliberazione, qui, si intende quella della politica legiferante ed esecutiva quanto quella dell’individuo che vuol farsi un’idea (e magari votarla quando ci saranno le elezioni).
Ma Maroni - potrebbe replicare qualcuno - era liberissimo di parlare, solo in altra sede. Perché voleva andare (e andrà) proprio a Vieni via con me? Manin ha previsto anche questa obiezione. «Nel vero contraddittorio - scrive Manin - due parti in conflitto portano il loro dissidio davanti a un terzo». In altre parole, il contraddittorio può esistere solo tra due persone che discutono rivolgendosi a una terza, che si presume sufficientemente imparziale e che ciascuno dei due vuole convincere. Vale a dire, nel caso specifico, al pubblico di quel programma, e non di altri. Nella sua lectio Manin lascia cadere non a caso l’esempio dell'antica Grecia, in cui Cleone o Diodoto, Nicia o Alcibiade, si affrontavano senza cercare di persuadersi a vicenda, ma tentando invece di convincere la medesima assemblea.
Facile, a questo punto, il paragone con il tempo presente, in cui si preferisce un contradditorio «tossico», durante il quale uno dei due sfidanti (spesso quello senza idee o curriculum) tende a massacrare l’altro sul piano personale. Piano che di solito non manca mai di appigli veri o presunti, comunque efficaci. Forse per questo, in campagna elettorale, la sinistra ha sempre reclamato a gran voce un contraddittorio con Berlusconi, e quest’ultimo, saggiamente, si è sempre sottratto? D’altra parte cosa replicare, sul piano delle idee e delle proposte politiche, all’accusa di aver frequentato troppe ragazze?
A ben guardare, secondo le categorie di Manin, non è stato un contraddittorio nemmeno quello di Fini e Bersani durante la stessa puntata di Vieni via con me, anche se molti l’hanno vissuto come tale. I due, di fatto, sono andati in scena separatamente, tenendo ciascuno la propria messa cantata. Esempio di come l’eccesso di correttezza di facciata (tipico di Fazio) riveli invece una situazione per nulla pluralistica. Da questo punto di vista, il fatto che Maroni leggerà il suo «elenco» probabilmente con Saviano dietro le quinte - senza guardarlo, come voleva, «negli occhi» - non pare, ancora, una soluzione democratica.
O forse è soltanto segno di una democrazia diversa da come l’abbiamo sempre pensata. Manin suggerisce, infatti, che occorra iniziare ad accettare il fatto che la democrazia sia soggetta a metamorfosi ben più di quanto si voglia credere. Oggi non siamo meno democratici di quarant’anni fa (checché ne dica Slavoj Zizek sull'ultimo numero di Alfabeta2, quando prevede un «capitalismo senza democrazia»).

Solo, abbiamo una democrazia più «personalizzata» sul leader e più invischiata con le nuove tecnologie: il problema, dice Manin, è che internet, per esempio, stabilisce contatti e legami tra individui per affinità, soprattutto ideologiche e questo «scambio con individui che la pensano allo stesso modo produce in generale una radicalizzazione delle opinioni». Tanto inutile quanto noiosa.

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