Il reporter Jack London fra le macerie dell’America

Nell’aprile del 1906 un terremoto colpì San Francisco. Lo scrittore realizzò un celebre reportage, ma anche un servizio fotografico, che ora la città espone per la prima volta

da New York
Il centenario del terremoto che nell’aprile 1906, insieme a un incendio durato tre giorni, quasi distrusse la città di San Francisco si sta avvicinando, e il periodo in cui ciò accade è particolarmente delicato dal punto di vista dell’immaginario collettivo degli Stati Uniti. Il paese infatti non si è ancora ripreso dallo shock psicosociale (dopo quello naturale) dell’uragano Katrina che sul finire dell’estate scorsa ha semidistrutto New Orleans, e che è ancora fonte di dure polemiche, a livello nazionale e locale: scarse misure di prevenzione, reazioni ritardate e confuse, provvedimenti finanziari contraddittori...
Sono appena cominciati - ma è probabile che si intensificheranno - alcuni accenni di confronto tra i due disastri. Quello abbozzato qualche giorno fa su un quotidiano era poco più che una battuta; si diceva in sostanza che per reagire al disastro di Katrina ci sarebbe voluto Spencer Tracy (uno dei protagonisti del noto film San Francisco del 1936). In questo movimentato melodramma padre Tim Mullin, il personaggio rappresentato da Spencer Tracy, è un campione di speranza e spirito ricostruttivo.
Sarebbe facile ironizzare sulla tendenza americana a mescolare disinvoltamente realtà e finzione, problemi sociali e intrattenimento. Eppure non è un modo del tutto privo di senso. Perché un disastro riesca a proiettare un alone, una eco intorno a se stesso, perché possa fortemente imprimersi nell’immaginario collettivo, è importante identificare un eroe; e non vale promuovere a eroi sul campo tutta la massa delle vittime. È l’operazione che si è tentata all’indomani dell’«Undici Settembre», e che è fallita: quello di eroe è un concetto essenzialmente individualistico e aristocratico, che mal si presta ad ampliamenti democratici. In mancanza di un eroe più o meno fittizio, come un personaggio cinematografico di spicco, la epicizzazione del disastro può giovarsi del ruolo del testimone autorevole: un artista, un pensatore, uno scienziato, o simili.
Basti pensare a Voltaire, poeta del terremoto di Lisbona del 24 novembre 1755; o a Charles Darwin, testimone e descrittore epistolare del terremoto che devasta la città di Concepción in Chile il 20 febbraio 1835; o al grande naturalista John Muir il quale in un suo libro descrive il terremoto del 1872 nella Owens Valley, che sconvolse tutta la parte centrale della Sierra Nevada. Forse quello che ancora manca all’uragano Katrina è uno di questi testimoni. È come se i ruoli dell’antica tragedia greca si rovesciassero, e il coro (delle vittime) venisse a occupare come protagonista il centro del dramma e della scena, mentre il ruolo del commento corale venisse assunto da quello che si potrebbe chiamare un protagonista marginale: il testimone autorevole, appunto.
Il terremoto di San Francisco ne ha avuto uno: lo scrittore Jack London, morto men che quarantenne nel 1916 dopo una vita quasi leggendaria per la sua avventurosità, ed enormemente prolifica nella produzione narrativa e giornalistica (per la cronaca: negli Stati Uniti è da poco uscita, a cura di Tony Mott, un’antologia di pagine avventurose: Jack London on Adventure). Proprio a cent’anni di distanza (alle cinque del mattino del 18 aprile 1906 una scossa di magnitudo 8.5 Richter svegliò, distruggendola, la città di San Francisco), la «California Historical Society» di San Francisco ricorda quel tragico evento con una mostra (aperta da oggi al 10 giugno) comprendente dozzine di fotografie che London scattò in questi giorni durante il suo lavoro di reporter, accanto alla sua seconda moglie, Charmian. I negativi di queste fotografie non erano ignoti agli specialisti, ma ora per la prima volta sono stati sviluppati con procedimenti moderni; e soprattutto, per la prima volta le foto sono esposte in pubblico, rivelando l’alta e finora insospettata qualità professionale delle immagini create da Jack London. «Non sapevamo che London fosse un fotografo così abile, lo abbiamo scoperto solo al momento di ristampare i suoi negativi», ha detto il restauratore delle immagini, Philip Adam. Alcune fotografie furono scattate tra le strade di San Francisco, altre nelle zone a nord della città: nelle campagne, a Santa Rosa, nella Sonoma Copunty e a Mendocino. Una testimonianza assolutamente unica ed eccezionale, e non solo per la “mano” che le ha realizzate.
Ma naturalmente il mezzo di espressione fondamentale di questo artista resta la parola scritta. Il 5 maggio 1906 una delle più note riviste americane dell’epoca, Collier’s, pubblica un articolo di London, intitolato Story of an Eyewitness e preceduto da questa nota editoriale: «Appena ricevute le prime notizie del terremoto, Collier’s telegrafò al signor Jack London - che abita a sole quaranta miglia di distanza da San Francisco - chiedendogli di recarsi sulla scena del disastro e scrivere la storia di quello che avrebbe visto. Il signor London si mise subito in moto, e inviò la seguente drammatica descrizione dei tragici eventi cui egli assistette nella città in fiamme».
In realtà, Jack London scrive una breve “storia” (termine potenzialmente ambiguo tra finzione e realtà) che è lucidamente concreta; essa si apre e chiude con il tono pragmatico che è spesso considerato (a volte i cliché contengono una parte di realtà) come tipico dello spirito angloamericano: «Il terremoto ha fatto crollare a San Francisco pareti e camini per una valore di centinaia di migliaia di dollari. Ma la conflagrazione che gli ha fatto seguito ha bruciato proprietà del valore di centinaia di milioni di dollari. Non si può fare una stima esatta del danno effettivo». Ma la frase che immediatamente segue passa dal pragmatismo all’iperbole (caratteristica, quest’ultima, che scioglie l’unità angloamericana, perché è più americana che inglese): «Mai nel corso della storia una città imperiale moderna è stata così completamente distrutta». A metà dell’articolo poi si legge un brano che acquista nuovo significato alla luce della mostra che sta per aprirsi: «... stavo camminando lentamente oltre la cupola fracassata del Palazzo Comunale. Non si poteva immaginare miglior illustrazione del potere distruttivo del terremoto. La maggior parte delle pietre erano crollate giù dalla grande cupola, lasciando eretta la nuda intelaiatura metallica. Market Street era coperta di detriti, e attraverso questa distesa giacevano di sghembo le colonne rovesciate del Palazzo Comunale, frantumate in brevi sezioni».
In questo passo c’è un non-detto, o meglio un non-visto: dietro il testo sta, per così dire, nascosta un’immagine che sarà rivelata soltanto il 9 febbraio. Quello infatti che Jack London non dice è che in quei momenti egli, oltre che descrivere la cupola fracassata della City Hall di San Francisco nel suo taccuino, aveva scattato una fotografia, la quale costituisce una delle immagini più eloquenti della mostra. Ecco allora che l’aggettivo oculare in Story of an Eyewitness, ovvero «Storia di un testimone oculare», acquista tutta la sua forza.) Un oggetto che invece non si vedrà nella mostra è il manoscritto, di pugno di Jack London, di uno dei suoi romanzi più importanti, The Sea Wolf (Il lupo di mare), manoscritto che egli aveva completato alla vigilia della partenza in nave (7 gennaio 1904) per Yokohama, dove si sarebbe impegnato in un’altra delle sue imprese di corrispondente, per seguire la guerra russo-giapponese.

Il manoscritto fu conservato accuratamente in cassaforte, ma anche così esso serba alcune tracce dei danni provocati dall’incendio post-terremoto, in quel catastrofico 8 aprile del 1906. Così la piccola storia dei manufatti artistici riflette la grande storia della natura e della società.

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