La resa della Dc raccontata da Gava Così il partito si consegnò a Violante

«Per viltà accettammo di votare i carnefici che ci avrebbero messo davanti al plotone d’esecuzione»

Ciò che impressiona di più nel libro di memorie di Antonio Gava (Antonio Gava con Giancarlo Gava «Il certo e il negato, un’autobiografia politica» Sperling & Kupfer), è la confessione della resa, il racconto di come le vittime si consegnarono al carnefice, anzi scelsero ed elessero esse stesse il loro carnefice, e lo misero in condizioni di massacrarle. Gava lo racconta alla pagina 267 del libro: «Nella precedente legislatura presidente della commissione antimafia era stato il senatore del Pci Gerardo Chiaromonte, politico di grande esperienza parlamentare, avversario tenace, ma sempre corretto. Era prassi, e lo è ancora oggi, che le commissioni di garanzia venissero presiedute da un esponente della minoranza secondo il principio dell’alternanza tra i due rami del Parlamento. All’inizio della nuova legislatura, perciò, la presidenza, dopo un senatore, spettava a un deputato, ancora del Pci. Gerardo Bianco, presidente del gruppo Dc a Montecitorio, propose a me, che ero presidente del gruppo Dc al Senato, l’elezione di Luciano Violante. “È la faziosità in persona - gli dissi - rifletti, è un errore, sappi che sono contrario”. “Senti, Gava - mi rispose Bianco - mi sono impegnato, mi è difficile tornare indietro”. La proposta spettava ai deputati e noi senatori dovevamo solo dare il nostro assenso: constatata l’insistenza di Gerardo Bianco, espresse le mie perplessità anche al segretario del partito Mino Martinazzoli, votammo compatti Violante presidente».
«La certezza che io fossi vittima di una inquisizione politica - dice oggi Gava - l’ho avuta proprio dalla lettura dell’ordine di cattura, che lessi nel carcere militare di Forte Boccea, dove fui tradotto all’alba con quelle 37 pagine tra le mani serrate tra le manette. L’ordine di cattura era la copia conforme, non una parola in più né una parola in meno, della relazione preparata da Violante per la commissione antimafia. Era lì la centrale di smistamento. Era lì che si affinavano strumenti e strategia per eliminare gli avversari, oggi Gava domani Andreotti, e conquistare il governo del Paese senza doversi sottoporre al fastidiosissimo rito delle elezioni. Se la rivoluzione voluta da Violante, per fortuna, non c’è stata, è perché all’improvviso è arrivato Silvio Berlusconi. Fu lui a fare la vera controrivoluzione, a ribaltare il tavolo da gioco. Fosse stato per noi, saremmo finiti tutti, in fila per uno, al macello... Un giudizio politico su Violante, questo strano comunista, ce l’ho ed è pesantissimo. Impronunciabile. Ma ancora più pesante è il giudizio su tutti quelli, me compreso, che con la loro viltà consentirono, ai tanti Violante di quella infelice stagione, di accerchiarci e di sbatterci davanti a un muro, pronti per i plotoni di esecuzione. La nostra fine cominciò quel giorno alla Camera, quando Craxi tenne il discorso contro la falsa rivoluzione che montava. Chi di voi, gridava Bettino, può ragionevolmente affermare di non sapere nulla sul finanziamento illecito della politica? E ci sfidò ad alzarci. Ma restammo tutti seduti...».
Antonio Gava è stato assolto anche in appello, e con formula piena, dall’accusa di concorso esterno in associazione camorristica, ma ci sono voluti 13 anni (e manca ancora la Cassazione), e l’ex ministro degli Interni ha superato due ictus, un infarto, l’asportazione di mezzo apparato urinario, il diabete, otto o nove ricoveri in ospedale, due arresti in piena notte, con manette e televisioni allertate, e un paio di settimane di arresti domiciliari, e le umiliazioni più indicibili, come il sequestro dei beni di sua moglie e dei suoi figli. E la condizione più umiliante di tutte, l’unico «politico» che ha dovuto subire anche questo, essere processato, sia in primo grado che in appello, assieme a un’ottantina di assassini, i più famosi esponenti della camorra di Napoli e provincia, compresi i due capi supremi del clan, Carmine Alfieri e Pasquale Galasso, i due «pentiti» che lo accusavano, e che non sono stati processati per calunnia, nonostante alla fine non siano stati creduti, e vivano da tempo in libertà, a godersi le loro ville con piscine, e i miliardi guadagnati con il crimine, se pure non sono tornati nel frattempo a delinquere. Come un fatto è certo: dopo le spettacolari retate e i grandi processi celebrati contro i «politici» dalla magistratura napoletana imbeccata dall’antimafia di Violante, la camorra a Napoli e provincia impazza come non mai. Gava riporta nel suo libro gli scritti del professore Paolo Macry, testimone insospettabile, impegnato nelle file della sinistra: «Le immagini che in questi giorni la cronaca restituisce di Napoli sembrano disegnare un quadro apocalittico. Bambini che cadono vittime della camorra. Testimoni coraggiosi che vengono assassinati sulla porta di casa. Montagne di rifiuti che finiscono nei capannoni dell’ex Ilva di Bagnoli, in quello che doveva essere il teatro luccicante della Coppa America. E poi procuratori generali cacciati dai loro stessi Pm, bande di “disoccupati organizzati” che devastano le strade, giovani vandali che schiaffeggiano i passanti, accorati esponenti del centro-sinistra che vengono alle mani per questioni di poltrone: Napoli rimanda all’anomalia di certe metropoli sudamericane in odore di default... E dal Grande Ulivo, allargato a Rifondazione, viene governata da un decennio... Ma quanto accade oggi dimostra che al Grande Ulivo e al suo leader non sono bastati dieci anni di potere assoluto per modificare la tradizionale debolezza del quadro cittadino. Il caso Napoli ha forti connotazioni politiche e, proprio a causa della forte enfatizzazione mediatica che da tempo ne è stata fatta, rischia di diventare oggi, per il centro-sinistra, un pericoloso boomerang...».
La forte enfatizzazione mediatica, gli articoli e i libri, anche di autori stranieri, su «potere e società a Napoli nel dopoguerra», sulla «dinastia» dei Gava, su Gava e la camorra, su Gava e il caso Cirillo, l’assessore sequestrato dalle Br, su Gava responsabile persino del colera (il vibrione era 'o gawa), e dopo i processi e dopo i dieci anni di potere assoluto del centro-sinistra in città, in provincia, nella Regione, questo è il bilancio. Con gravi responsabilità della stampa, della televisione, dei giornalisti: «La stampa e la televisione, scrive Gava, si prestarono a diventare “gogna mediatica” o, peggio ancora, megafono di alcune Procure, i telegiornali aspettavano fino all’ultimo minuto, fino alle otto di sera, per impaginare i titoli, avvertiti per tempo dai pubblici ministeri, gli “ayatollah della Repubblica”, secondo la definizione di Sergio Romano... nacquero i pool dei giornalisti, quelli di primo e quelli di secondo livello, qualche cronista salì parecchi gradini della carriera, non ci fu uno straccio d’inchiesta, poche o nessuna le voci di dissenso...».
E dopo 13 anni di processo, i giudici di Gava scrivono nella sentenza: «Innanzitutto è stata conseguita prova certa del fatto che tra il Gava e gli esponenti dell’associazione camorristica guidata da Carmine Alfieri non vi è mai stato un rapporto o un contatto diretto. Il dato emerge pacificamente da ogni pagina processuale ed è confermato anche dalle concordanti dichiarazioni dei medesimi capi del sodalizio determinatisi alla collaborazione con la giustizia... In un ambito temporale così ampio il Gava non ebbe mai neppure un solo incontro con membri del clan Alfieri. Né risulta dimostrato che un rapporto tra costoro e l’imputato sia stato realizzato tramite terze persone... difetta inoltre del tutto la prova che attraverso la mediazione di terze persone si sia concretizzato un accordo tra il politico e i personaggi dell’associazione, in virtù del quale il politico si sarebbe impegnato ad agevolare il sodalizio in cambio del sostegno elettorale per sé o per altri...». Antonio Gava, dopo essere stato presidente della provincia di Napoli, è stato eletto ininterrottamente in Parlamento per vent’anni, dal '72 al '92, sempre con centinaia di migliaia di voti di preferenza, è stato ministro dei Rapporti con il Parlamento, ministro delle Poste, ministro delle Finanze, ministro degli Interni: al processo è stato accertato che nel seggio elettorale di Piazzolla di Nola, il cuore del regno camorristico di Carmine Alfieri, Antonio Gava nelle ultime elezioni in cui si candidò, ha preso 6 (sei) voti. E il «pentito» Carmine Alfieri dichiarerà in aula, dinanzi ai giudici della V sezione del tribunale di Napoli: «Indirettamente l’ho sempre votato». Indirettamente.
E per finire, l’ultimo ricordo di Antonio Gava: «Quattro anni fa, quando è morto mio padre (il mitico Silvio, 13 volte ministro della prima Repubblica) ho incontrato ai funerali l’ex presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Un ex dc, come Silvio Gava, come me. Che negli anni del terrore giudiziario se n’era stato tranquillo, mettiamola così, nel palazzo del Quirinale. Eravamo nella chiesa di Cristo Redentore, qui a Roma, e lui venne doverosamente a stringermi la mano.

Io, che ancora mi sentivo un appestato, gli parlai sinceramente: devi darmi atto, presidè, che non sono mai venuto a chiederti nulla, per non metterti nei guai; e che non ho chiesto nulla nemmeno al mio grande amico Michele Zolla che è stato con te al Quirinale. Scalfaro mi rispose con parole mistiche e con tono francescano. Guardò la bara di mio padre, poi guardò me fisso negli occhi e disse: “Silvio era un grande avvocato, ti assisterà da lassù, dal Paradiso”».

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