Latrocità degli eventi di lunedì a Gaza sta in queste ore materializzando la trappola di ferro e fuoco in cui Hamas si è andata chiudendo da quando ha preso il potere. Un disastro non solo per se stessa, ma per tutti quanti i suoi amici più stretti: certo né Ahmadinejad, presidente iraniano, finanziatore e sostenitore ideologico di Hamas, né Nasrallah, capo degli intimi amici darme, gli hezbollah, né Bashar Assad che ospita a Damasco Khaled Mashal, sono in queste ore molto contenti.
Ieri, proseguendo nella linea della repressione degli uomini di Fatah, Hamas ha fatto 400 prigionieri; Gaza ha seppellito fra scontri, e ancora spari, i sette trucidati in piazza dagli uomini di Hamas con le armi alzo zero, fra cui un diciannovenne. Gli ospedali sono zeppi di feriti, una novantina, per il fuoco di Hamas, e i suoi uomini seguitano a spazzare Gaza città e i campi profughi, mitica base dei guerriglieri di Allah e della patria palestinese, ora invece vittime della guerra civile. Le scuole sono chiuse e così la maggior parte dei negozi. Mahmoud Dahlan ha ripreso le vesti del capo di Fatah che aveva deposto nella sconfitta di giugno, ha annunciato nuove grandi adunate e ha sfoderato toni che in genere si usavano solo per gli israeliani: «La nostra marcia accorcerà la sofferenza del popolo palestinese e la vita di questo movimento sanguinario (Hamas)... lasceremo alle nostre spalle questo periodo di oscurità verso un futuro più promettente». Insomma: la guerra sarà dura, e ora abbiamo la consapevolezza che possiamo vincerla sul terreno perché abbiamo messo in piazza più di 200mila persone. Persino la Jihad islamica ha condannato Hamas per la sua violenza: «È un tabù sparare allimpazzata su una dimostrazione popolare».
Come lo scorpione che affoga con la sua vittima proprio per la difficoltà di tradire la sua natura selvaggia, Hamas è caduto nel baratro della sua stessa idolatria per la violenza. Al contrario di quello che molti politici e commentatori italiani avevano pronosticato, il movimento integralista islamico sunnita, isolato dallopinione pubblica mondiale, ha perso popolarità e consistenza. Listituto di ricerca palestinese Jerusalem Media and Communication Center ha rivelato che il supporto per Fatah è cresciuto dal 30,6% al 40% in Cisgiordania e Gaza, mentre il sostegno per Hamas è declinato dal 29,7% al 19,7. Lindagine rivela anche che il primo ministro di Hamas, Ismail Haniyeh, è secondo a Abu Mazen nella scala della popolarità. Haniyeh per altro ultimamente è stato di fatto privato del suo potere dallex ministro degli Esteri Mahmud Al Zahar e dal capo dellala militare Ahmed al Jaabari, un duro in competizione anche con Khaled Mashal.
Di fatto, Hamas da tempo soffre di una frattura interna alimentata anche dagli Stati islamici circostanti: mentre lala dura è alleata di ferro dellIran e degli hezbollah ovvero, con una torsione ideologica e religiosa, sta con il movimento sciita, la parte di Haniyeh sembra sensibile al richiamo della culla sunnita, alla cui testa da sempre siede lArabia Saudita. I sauditi sono oltraggiati dalla perdita di Hamas, e spingono per riportare a casa il fratello perduto sponsorizzando una riconciliazione con Fatah. Da tempo ci provano, ma la mossa sì è già mostrata disastrosamente inefficace, dato che di fatto linflessibilità di Hamas ha trascinato semmai Fatah in alleanze che davano spazio allideologia islamista, come accadde al vertice di Riad, quando si formò il governo di coalizione poi naufragato nel sangue.
Adesso lo scontro armato di lunedì, che gli uomini di Hamas hanno messo in scena contro una piazza che brandiva le immagini sacralizzate del ritratto di Arafat, ha fornito limmagine di un Hamas che spara alla stessa icona della palestinità impersonificata.
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