Politica

Il retroscena Veltroni schiva ancora il congresso-guerriglia

RomaUscire dalla «melma», come la chiama Goffedo Bettini. «Melma» tutta autoprodotta, nel caso di specie, dal Pd.
È questa la parola d’ordine con cui i veltroniani si sono presentati ieri al primo confronto interno nel coordinamento, organismo ristretto che (più o meno) rappresenta tutte le varie anime del partito: Bersani, Letta, Finocchiaro, Fassino, Bindi, Fioroni etc. Con un’assenza illustre, quella di Massimo D’Alema che al momento si trova ancora all’estero, per un giro di conferenze in America latina, e prima di venerdì non sarà su piazza. Nell’attesa, Walter Veltroni e i suoi hanno battuto i pugni sul tavolo: non si può andare avanti con questo stillicidio di polemiche e di sgambetti, bisogna mettere fine alla «guerra fratricida» nel Pd. Dunque, ha spiegato il segretario, occorre un «chiarimento vero» sulla linea: chi ci sta ci sta, e chi non ci sta lo dica apertamente. La sede del «chiarimento» non sarà quel congresso anticipato che qualcuno, tra i pasdaran del leader, ha «usato come una clava», secondo le parole di Bersani: sarà la direzione del partito (circa 250 membri), convocata il 19 dicembre dopo il voto abruzzese, a essere chiamata a votare. Su una piattaforma, quella che Veltroni illustrerà, «inequivocabile», assicurano i suoi. Fatta apposta per «stanare» la fronda: «Sulla linea dell’innovazione non torno indietro - avverte il segretario - e voglio una verifica chiara del consenso nel gruppo dirigente e nel partito. Se esiste una divergenza strategica al nostro interno, meglio che esca alla luce del sole: è il male minore rispetto alla guerriglia quotidiana e opaca».
Se quel consenso non sarà «largamente maggioritario», spiega Giorgio Tonini, «allora si andrà al confronto in congresso. Se invece il consenso ci sarà, quella diventerà il testo base per la conferenza programmatica di febbraio e per la campagna elettorale europea». Nella sua relazione alla direzione, Veltroni non parlerà solo del mondo che cambia, della crisi economica globale, dell’ «affanno» del governo Berlusconi e della vittoria di Obama negli Stati Uniti che «apre scenari tutti nuovi» e «ci dice che il trentennio neoconservatore sta finendo». I suoi strateghi, che stanno già lavorando alla scaletta, assicurano che affronterà tutti i «nodi irrisolti» e più dolenti per il Pd: la legge elettorale («e non certo su una linea tedesca... », ossia quella che piace a D’Alema), la collocazione europea («e guardando ben oltre il vecchio contenitore del Pse»), la forma del partito, la «vocazione maggioritaria» del Pd (quella che fa venire le bolle all’ala dalemiana), le alleanze. «Sarà una relazione di rilancio, una sorta di Lingotto 2», dice Bettini, rievocando il discorso della discesa in campo, a Torino. E su quella ci si conterà: a Veltroni non dispiacerebbe che la fronda D’Alema-Letta-Bersani-Rutelli ecc. venisse allo scoperto e si schierasse contro. Non gli dispiacerebbe perché i numeri della direzione gli darebbero comunque ragione, visto che la sua maggioranza (con lui sono schieratissimi gli ex Ppi, Beppe Fioroni e Dario Franceschini in testa) è ultrablindata. E bollare come minoranza alla luce del sole quella di D’Alema sarebbe un bel sollievo. Ragione per cui, scommettono in diversi nel Pd, la «fronda» cercherà di evitare fino all’ultimo la conta, magari cercando un compromesso. E sperando magari che le elezioni abruzzesi siano una tale batosta per il Pd che Veltroni sia costretto ad abbassare le pretese.

Anche se ieri il suo luogotenente abruzzese, Giovanni Lolli, confidava che i sondaggi del Pd sono in ripresa, dal baratro iniziale (poco più del 20%), e a scapito non del Pdl ma - ancor meglio - dell’alleato Di Pietro.

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