La ricetta contro il crimine? Far scontare la pena ai criminali

La cronaca ci ha abituato ad assistere alla ripetizione di un tragico refrain che riguarda la facilità con cui coloro che commettono reati, anche gravissimi, contro la persona, omicidi, stupri, se ne stanno tranquillamente fuori dal carcere, nella migliore delle ipotesi ai cosiddetti «arresti domiciliari», o altrimenti liberi.
Da alcuni anni ho cercato di affrontare la questione in articoli di stampa o su pubblicazioni specializzate nell'ambito della mia disciplina; in generale, non è facile che gli editori, intendo gli editori dei quotidiani, siano disposti a pubblicare articoli sull'argomento, cosa che non è distinta dal problema stesso che voglio affrontare qui; perché è una questione di cultura, di una posizione culturale che - come sempre accade - fa resistenza a lasciarsi scalzare, anche in piena flagranza della propria nullità. E ringrazio quindi il Giornale, che finora si è mostrato invece aperto a lasciare che qualcosa di diverso venga detto.
Bisogna innanzitutto smettere di interpretare quello che accade come il risultato di errori o di posizioni inadeguate di taluni magistrati. Come se il sistema nel suo complesso fosse ben concepito e architettato e poi, per colpa di qualcuno tutto andasse a bagno. Non è così; il fatto è che il sistema penale, intendo il processo penale, la determinazione della pena nello stesso codice penale e la successiva fase dell'esecuzione della pena, si reggono su un quadro concettuale che deve essere profondamente analizzato e ripensato; tutto l'insieme è stato edificato su fondamenta che naturalmente traggono la loro ragion d'essere da una cultura, quindi da valori universali. Alcune di queste idee, che pure hanno, al loro tempo, portato del nuovo e rivoluzionato concezioni ottocentesche che non potevano più avere cittadinanza nelle nostre società occidentali (si pensi al carcere raccontato da Hugo), hanno ora mostrato il loro limite ed è importante che vengano smascherate, in modo che cessino di far mal-funzionare, a partire dall'oscurità in cui si trovano, il nostro sistema giudiziario.
Ne nomino dunque alcune:
1) che il reo è tale per una complessa convergenza di fattori di origine sociale, e nient'altro.
2) che la reità è anche il frutto di una mancanza di consapevolezza.
3) che la punizione non serva a disincentivare il crimine e che sia un lascito di idee vecchie e oscurantiste.
4) che se qualcuno ha commesso un reato in condizioni di incapacità di intendere e di volere, non debba essere rinchiuso o debba esserlo meno a lungo.
5) che l'esecuzione della pena debba tendere alla rieducazione, secondo una prospettiva pedagogica.
6) che sia sempre possibile fare tutto: se ci mettiamo in testa di rieducare qualcuno, ci riusciremo.
Tale insieme di idee, che non pretendo sia esaustivo, è la prova più lampante che il mondo della Giustizia, inteso nella sua accezione più ampia, funziona in modo assolutamente autoreferenziale, al punto che - sembra - non ne vuole sapere niente del funzionamento psichico.
Le persone fanno quello che fanno, reati o non reati, per una enorme complessità di cause, di pensieri e affetti, che le muovono e le spingono di qua e di là, della maggior parte delle quali non ne sanno niente. Provate a far smettere di fumare a uno spiegandogli che fa male; mi viene da ridere. E perché allora dovrebbe essere possibile, con le spiegazioni, far smettere di delinquere? Non vedete che qui c’è qualcosa che non funziona?
Una volta che si è venuta a costituire una determinata struttura psichica essa tende a funzionare in un certo modo e il cambiamento sarà piuttosto difficile. Non sarà impossibile, per fortuna, ma sarà più difficile che facile. Potremmo anche non riuscirci: leviamoci quindi dalla testa, in questo campo, di riuscire sempre nell'intento del recupero.
Torno all'esempio del fumatore: se uno fuma, ci sarà senz’altro un'influenza del sociale. Difficile immaginare che qualcuno fumi in una società dove non esiste tale consuetudine; probabile invece che, in un ambiente dove molti fumano, qualcuno si accodi. Detto questo, ciò non basta a spiegare il fatto che si fumi. Alcuni non inizieranno neppure; altri inizieranno e poi smetteranno, altri ancora non smetteranno mai, a dispetto di tutta l'informazione che gli si possa dare e di tutta la consapevolezza che possano avere sul male che il fumo fa. Una volta che egli sa, però, non è più responsabile «la società», è lui che è responsabile. Nella comprensione del comportamento deviante non c’è nulla di più devastante che l'azzeramento della responsabilità individuale a fronte della «colpa della società»; nel già difficile lavoro di trattamento in carcere, vi trovate davanti delle persone che hanno imparato così bene la lezione del «sono così per la mia storia», «per l'ambiente in cui vivo», «per colpa dei miei genitori» che non si riesce più a cavarne nulla. Non c'è modo di spingerli ad assumere la responsabilità della propria vita, perché stanno troppo comodi nell'ovattata tranquillità che viene loro offerta dallo stereotipo della «colpa della società». La punizione, in questo senso, è tutt'altro che fuori luogo; serve a far loro sapere che c’è qualcosa che riguarda loro, non i genitori o le cattive compagnie. Da un certo punto in poi, si deve porre, e imporre, che il responsabile sia lui, non qualcun altro.
La punizione non ha soltanto questo fine, ma anche un altro, più importante: contribuisce a rendere definito, e operativo, un ordine dei valori, senza il quale moltissime persone sono allo sbando e vengono incoraggiate a non distinguere fra il bene e il male.
Passiamo poi alla famigerata «incapacità di intendere e di volere», totale o parziale che sia. È anch'essa una conquista della moderna cultura sociale e non è certo mia intenzione metterla sotto accusa; è giusto che, caso per caso, si valuti quanto un certo soggetto sia in grado di decidere e quindi quanto sia responsabile di ciò che ha fatto. Purtroppo, è un concetto che è stato usato male. È divenuto una scusante, un altro elemento che ha contribuito alla caduta dei valori, dei concetti fondanti della società democratica. Se qualcuno ha ucciso più persone agendo un sintomo seriale di tipo psicotico, (citerei qui il famoso Gaspare Zinnanti, che credeva di parlare con Gesù Cristo, se non di esserlo lui stesso), non è in grado di intendere e di volere, va bene; ma, da dove viene l'idea che si possa allora non recluderlo? Si tratterà certamente di curarlo, non di sbatterlo in cella insieme a sei spacciatori di cocaina, ma all'interno di una struttura custodiale, non fuori. Zinnanti, ha «risolto» il problema da sé, perché si è suicidato in cella, poveraccio anche lui; ma: se fosse stato messo fuori? Perché non avrebbe dovuto continuare a uccidere, visto che era Gesù Cristo che gli diceva di farlo? E, se si fosse deciso di recluderlo in un Ospedale Psichiatrico Giudiziario, in che modo si sarebbe valutato, al termine della pena, se la sua psicosi aveva cessato di poter produrre crimini così gravi come l'omicidio? Si ha l'impressione che l'unico modo, attualmente, di valutazione dell'evoluzione della personalità del condannato sia il buon (o non buon) comportamento in carcere. Il che equivale a dire che non si effettua praticamente alcuna valutazione, perché sarebbe come misurare la pressione degli pneumatici con il termometro. Vedete che si va qui a toccare l'impianto stesso del Codice Penale su ciò che riguarda il tipo di pena prevista. È chiaro che l'alternativa non può essere: sei responsabile e quindi vai in carcere, sei incapace di intendere e di volere e quindi vai fuori. L'alternativa è, naturalmente, un'altra: o stai in carcere o ti curi chiuso da qualche parte.
Ma la cosiddetta «incapacità di intendere e di volere», così come è stata presa finora, ha anche altre ricadute molto negative; posso testimoniare che detenuti che hanno commesso, addirittura, omicidi, per i quali sia stata sancita una «incapacità di intendere e di volere» al momento del crimine, diventano praticamente impossibili da trattare nei colloqui in carcere, perché vi rigirano sempre in faccia il fatto che non è stata colpa loro, non si ricordano nulla, non sanno perché l'hanno fatto, perché il quadro culturale in cui si muovono li autorizza e li incoraggia a comportarsi così. Da quel momento in poi, non è più possibile far loro assumere nulla di ciò che è accaduto; ad esempio, che, ora, è loro responsabilità interrogarsi su ciò che accaduto e - quindi - su ciò che in loro stessi richiede di essere elaborato.
Vivono nella beatitudine del «non è stata colpa mia» e sfido chiunque a farli rinunciare a un tale salvacondotto.

Al contrario, il quadro culturale e, di riflesso, normativo, dovrebbe indirizzarli in maniera univoca: successo quel che è successo, ora non puoi più sottrarti al farti carico dei tuoi problemi e del modo in cui fai gli altri vittime dei tuoi problemi.
*psicoterapeuta

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