Roma - Si profilano le elezioni e riparte il tormentone sulla riforma elettorale. Mai una volta che se ne parli quando le acque sono calme, le urne lontane, i cervelli sereni. La modifica del voto è come il conflitto di interessi del Cav, la costruzione di nuove carceri, il disciplinare sulle mozzarelle. Le questioni restano quietamente in sonno ma ricicciano nell’emergenza. Il Cav vince? E allora giù col conflitto di interessi di cui ci strasbatteva quando era all’opposizione. Arriva il caldo e una rivolta all’Ucciardone? E via con le geremiadi sul sovraffollamento carcerario. Le mozzarelle sono blu o contraffatte con latte di cammello? E hop col dibattito sulla mancanza di regole casearie. È un classico far marcire un problema per poi strapparsi le vesti quando scoppia. Anzi lo si tiene apposta in naftalina per riesumarlo quando serve a confondere le acque.
La legge elettorale è per i politici quello che sono le gonne per le signore. Se si sentono giovani e belle le accorciano, se mettono su chili e anni le allungano. Ma l’obiettivo è lo stesso: restare sulla breccia. Così, ogni volta che una parte politica vuole cambiare il modo di votare è perché si sente debole e prova a ribaltare il pronostico col trucco. Naturalmente, invece di confessare la sua paura dirà che la legge in vigore è ingiusta, falsa, truffaldina. Aggiungerà che è antidemocratica e umilia l’elettore costretto a piegarsi allo strapotere dei partiti.
L’attuale dibattito ricalca quelli che lo hanno preceduto. Da un lato, ci sono il Berlusca e i suoi cui sta benissimo il Porcellum, cosiddetto perché il suo autore - il leghista Calderoli - lo definì, con affettuoso paradosso, «una porcata». Caratteristiche del Porcellum sono: a) un premio alla coalizione vincente che ottiene automaticamente 340 seggi alla Camera, equivalenti al 55 per cento dei voti anche se ne ha effettivamente conquistati meno del 50; b) l’esclusione del voto di preferenza essendo i candidati scelti dai capataz federati di destra e di sinistra: il Cav, Bossi, Fini, Bersani, Di Pietro, ecc. Il vantaggio della formula è che, almeno in astratto, chi vince governa davvero perché può contare su un bel surplus di deputati in Parlamento. Dico in astratto perché poi- come si vede oggi con la querelle Fini-Cav e in passato con la brancaleonica armata di Prodi- le liti sfarinano le alleanze e condannano questo strano Paese al suo abituale ondeggiamento. Comunque, il premio di maggioranza è la formula ideale per fare funzionare il bipartitismo: uno vince e governa, l’altro perde e si oppone.
Il Porcellum non piace invece alla sinistra. Ma alza le barricate solo in questo agosto 2010. Quando si sentiva in forma nel 2006 - pur mettendo le mani avanti se per caso non le fosse andata bene - accettò di buon grado l’attuale legge elettorale. Vinse e nei due anni del suo governo, pur avendo i numeri per riformarlo, lasciò il Porcellum come ce lo ritroviamo adesso. Questo per ribadire che le questioni sono poste non per astratte e sublimi ragioni ma quando il terreno frana sotto i piedi. Bersani e i suoi sanno che se si torna alle urne un’altra batosta come quelle del 2008 non gliela leva nessuno. È solo per evitarla che ora caldeggiano l’abolizione del premio di maggioranza di cui prima hanno approfittato. Così, se anche il Berlusca vince ma non stravince, addio governabilità. Gli toccherà scendere a patti e, Dio voglia, sarà costretto gettare la spugna dopo un annetto, secondo i ritmi della Prima Repubblica, scanditi da governi balneari, alleanze polpettone, geometrie variabili, inguardabili staffette tra Rumor e Colombo, successioni identiche: Fanfani I, II, III e compagnia. Insomma, un supersalto carpionato nella preistoria degli anni ’60 e ’70.
È per questa insana nostalgia che si affiancano alla sinistra di Bersani & Co nella lotta al Porcellum i centristi dell’Udc, rutelliani, bocchiniani e tordi vari. Così, pur di impiccare il Berlusca, il vecchio mondo si stringe a coorte per buttare a mare tre lustri di bipolarismo e modernizzazione. A introdurre il maggioritario - oggi rimesso in discussione dagli eroi di cui sopra - fu il referendum del 1993. Ricordate la riforma di Segni e il boicottaggio che ne fece Craxi al motto: «Invece di votare andate al mare»? Bene - se diamo retta al duo Bersani-Casini - la volontà popolare di allora sarebbe cancellata da un inciucio di Palazzo. Questa è la posta in gioco.
Che dire poi di questa recente voglia di tornare alle preferenze? Siano gli elettori a selezionare i loro rappresentanti, urlano all’unisono ex dc ed ex comunisti, perfino loro che imponevano all’elettorato irreggimentato un qualsivoglia quidam de populo designato dal partito. Scegliere chi più ti aggrada è in sé buona cosa. La pratica è però diversa. In passato, non erano tanto gli elettori a scegliere ma i candidati a imporsi. Chi era più ricco o più spregiudicato spesso prevaleva corrompendo. Del voto di scambio - se mi dai il voto ti prometto un vantaggio - sono pieni gli annali della Prima Repubblica. Su questo reato è fiorita un’intera classe politica. Ricordate il mitico Achille Lauro che regalava la pasta ai napoletani o dava la metà di una banconota da diecimila con la promessa dell’altra metà se avesse effettivamente avuto il voto? E il corteo di brogli e controlli illegali delle schede per verificare che il patto fosse stato mantenuto? Per tacere dei candidati imposti col coltello dalle coppole nelle zone mafiose del Sud.
Per oltre un secolo è stato questo il voto preferenziale all’italiana come sanno i liceali - i più secchioni, s’intende - che hanno letto il «Viaggio elettorale» di Francesco De Sanctis. Ce ne eravamo liberati e ora Bersani ci vuole tornare. Giudicate anche da questo se è più pirla o in malafede.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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