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Rinascimento a Ferrara l'officina della bellezza

Da Ercole de' Roberti a Lorenzo Costa e Antonio da Crevalcore. Una stagione inimitabile

Roberto Longhi, nella sua Officina ferrarese scrive: «Che vanto per una città sapere esprimere dai propri fianchi un genio così solennemente abissale, sorto non tanto per ispirazione divina quanto per una predestinazione civica e terriera, che lo astringe, per dir così, a una sublimità d'eccezione! Per merito di Ercole, Ferrara siede, verso l'ultimo decennio del secolo, più alto che qualunque altro punto d'Italia; e, per forza di Ferrara, Ercole conquista una situazione così personale da non trovare, a quei tempi, altro paragone di valore che in Leonardo».

Ferrara dunque. Ma con la trasmigrazione di pittori così grandi, Francesco del Cossa, Ercole de' Roberti, Lorenzo Costa e poi, anche se non noto ai tempi del Longhi, Antonio da Crevalcore, a Bologna, si apre la questione di un Rinascimento bolognese con attori ferraresi. Il tema è affrontato con grande consapevolezza dal più apprezzato allievo di Carlo Volpe, Daniele Benati, nel saggio «Oltre l'Officina ferrarese: la riscoperta del Rinascimento a Bologna», nella storica rivista longhiana Paragone: «Nell'Officina, concepita come recensione allargata all'Esposizione della pittura ferrarese del Rinascimento del 1933, Longhi aveva infatti accolto e fatto propria la convinzione circa la centralità di Ferrara su tutto il Rinascimento padano che, testata per la prima volta nella mostra fotografica tenuta nel 1894 al Burlington Fine Art Club di Londra, aveva ottenuto il consenso della critica internazionale: su quella linea si era mosso Bernard Berenson, i cui passaggi dedicati a Ferrara negli Italian Painters of the Renaissance del 1907 sono di fatto alla base, come è stato ampiamente riconosciuto, della stessa Officina. In questo modo venivano messi in secondo piano, a favore della sola Ferrara, altri centri che pure avevano giocato un ruolo decisivo nella vicenda del secondo Quattrocento padano. Era il caso soprattutto di Bologna, dove alcuni degli stessi pittori ferraresi avevano lasciato le prove più ragguardevoli del loro catalogo, ma che persino nel giudizio degli storici locali stentava ad accedere a una piena consapevolezza della propria grandezza in epoca quattrocentesca».

Verrà il giorno che si farà a Bologna una mostra sul Rinascimento a Bologna in cui giochi un ruolo fondamentale la presenza assoluta di Niccolò dell'Arca che offre una matrice plastica per le invenzioni di Francesco del Cossa ed Ercole de' Roberti che si desume in modo inoppugnabile dall'accostamento fra il San Domenico della Fondazione Cavallini Sgarbi e la Pala dei Mercanti con i suoi corruschi ritratti in vesti di San Petronio e San Giovanni. Allora al centro di quella mostra sarà inevitabile avere il maestro di origine culturale ferrarese che costituisce la presenza più originale di quest'occasione, con i suoi capolavori mai prima d'ora esposti in pubblico. Mi riferisco ad Antonio da Crevalcore che è il cuore della mostra, e lo sarebbe anche per quella auspicata del Rinascimento a Bologna. Per evidenti ragioni, a partire dalla ormai acclarata presenza del suo trittico o polittico in San Petronio a Bologna, vicino al San Gerolamo di Lorenzo Costa, di affine concezione. E forse proprio in questo potente e raffinato artista si ravvisano caratteri propri e precipui di una declinazione bolognese del Rinascimento ferrarese, nella fortissima accentuazione plastica delle forme, dai panneggi alle peculiari nature morte.

Appare un segno del destino che in questo percorso io sia stato accompagnato da due fortune: la prima, il ritrovamento del primo San Domenico di Niccolò dell'Arca, concepito nella stagione dei ferraresi a Bologna, tra 1474 e 1475, in equilibrio fra realismo e rigore. La seconda, l'apparizione nello studio di Carlo Volpe del trittico di Antonio da Crevalcore su cui lo studioso aveva posato gli occhi subito prima di morire. Pensai che fosse necessario non perderli e ne proposi l'acquisto a Roberto Memmo, e partecipai con lui all'asta, superando le offerte numerose, fra le quali una per la quale era stato advisor Zeri, il quale aveva cercato di dissuadere mia madre, che del mio entusiasmo l'aveva informato, scrivendole, severo: «Crevalcore non è Masaccio!» (ho ancora il suo biglietto!). Fu una serata memorabile ed emozionante. Il mecenate aveva contribuito al riconoscimento di uno sconosciuto pittore del Rinascimento ferrarese. Gli piacque molto che io indicassi l'anagramma dell'autore sulle sparse lettere sull'ara del San Pietro, e che avessi programmato articoli e una monografia (la prima) su Crevalcore (cui Venturi aveva dedicato una riga della sua Storia e Longhi una nota della sua Officina, mentre a Zeri si deve il primo articolo e anche, dopo anni di frequentazione, la proverbiale inimicizia per la competizione perduta).

Così Crevalcore entrò prepotentemente tra i grandi maestri della pittura del Quattrocento ferrarese. Dopo quasi quarant'anni, ora per la prima volta al mondo i grandi teleri si vedono in un museo pubblico, coronando i pensieri, e credo i desideri, di Carlo Volpe. Ferrara riafferma il proprio primato, ma Bologna attende il suo Rinascimento, in dialogo con i maestri della città sorella, capitali della Padania longhiana che il grande critico volle tenere separate e lontane, privilegiando, dentro la storia, la sua Officina ferrarese.

Ma siamo a Ferrara, i protagonisti sono ferraresi anche quando transitati a Bologna. E infatti, diversamente dallo sdegnato Cossa, Ercole, dopo aver seguito l'amico e maestro, a Ferrara ritorna poco dopo, per l'imponente pala di San Lazzaro che giustamente Michele Danieli rivendica precedente il polittico Roverella di Cosmè Tura, come precedente fu anche la pala di Santa Maria in Porto a Ravenna, del 1481, sei anni prima del polittico Roverella. E dal 1486 Ercole a Ferrara ritorna definitivamente. Ma sulla sua fedeltà alla matrice ferrarese, alla madre Schifanoia, con Francesco del Cossa in grande (e consapevole) spolvero (da cui l'ira), non ci sono dubbi. In tutta la storia dell'arte con i tanti casi di corrette attribuzioni nessuna mi è parsa mai stupefacente come quella del mese di Settembre nel salone di Palazzo Schifanoia ad Ercole De Roberti, con il radar infallibile di Longhi.

Officina ferrarese è anche la scrittura mimetica, animata dallo stile dei pittori ferraresi, del Longhi. È questo forse il caso più alto di una attribuzione basata sull'analisi delle forme che ha maggiore evidenza e certezza di un documento. Tutto questo è ben detto e confermato nel saggio di Michele Danieli sull'esordio di Ercole a Ferrara ed è giusto che in mostra si segua il percorso della pittura ferrarese, Tura compreso, sul crinale del 1470. In seguito si trovano Cossa ed Ercole a Bologna nel polittico Griffoni. Ercole nella cimasa, nei pilastrini e nella predella. Nella parentesi bolognese, al tempo dell'esordio di Crevalcore, toccò a me pubblicare per primo la cosiddetta pala Grossi oggi riferita a Giovanni Antonio Bazzi. Ora in mostra l'alternanza Bologna/Ferrara si registra anche in Antonio da Crevalcore attraverso il confronto del Ritratto del Correr con il busto di Ercole I d'Este di Sperandio Savelli. Ma ciò che è indiziario per Crevalcore è documentato per Ercole, il cui ritorno a Ferrara risale al 1486, anche con umili mansioni.

Poco più giovane di Ercole è Lorenzo Costa, nato a Ferrara nel 1460 e già nel 1483 documentato a Bologna. Il suo collegamento con Ercole, come con Crevalcore, è palese nella tavola con il San Girolamo in San Petronio, del 1484-5.

Il suo ampio percorso all'ombra di Ercole è illustrato in mostra, per la prima volta da Michele Danieli, che mi fece la proposta di una monografica sul pittore che io ho voluto estendere a Ercole de' Roberti. Il suo percorso è vario, ma privo di enigmi. E ci conduce fino alla metà del quarto decennio del Cinquecento, incrociando Perugino e Raffaello.

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