A «riposo» ho scoperto la bellezza della fatica

Un pensionato è quella roba lì che tutti sanno. Che tutti sappiamo. Ma il prepensionato che razza di figura è mai? Ve lo spiego, tento, ci provo.
È uno che improvvisamente passa dal rettilineo alla curva, pure in salita, il gruppo se ne va in fuga, tu arranchi, la frizione slitta, il «parabris» (breeze, d’accordo) si appanna, fai andare i tergicristalli ma la visuale è un tulle che non migliora. Insomma ci sei, è fatta, devi scendere dalla giostra, si fa per dire, capisci che la vita non è più adesso, come ripete lo slogan imbecille, la vita era ieri e l’altro ieri e la certezza del domani dipende non più dal modello cento e uno ma dalla cartella clinica e da altri fattori. Gli anni sono pesanti eppure sembravano belli freschi fino a un giorno prima, raccogli le ultime memorie dal cassetto della scrivania, togli il disturbo tra sguardi bastardi, frasi di circostanza, mancano soltanto la fotografia ricordo e lo scambio di numeri del telefono come si faceva alla fine delle vacanze. Stavolta non spedirò nessuna cartolina.
Uno, due, tre giorni, qualche settimana di smarrimento, direi di utilizzare il sostantivo «trauma», hai un’età ancora giovane, sembianze giovanili ma non servono più alla ditta, il contratto è esaurito. La notte non è più quel tempo per rammentare la giornata piena di cose, riunioni, telefonate, chiusure affannose di pagina, incazzature dei capi, varie ed eventuali. La notte no, è il momento della nostalgia malinconica o della malinconia nostalgica, dei pensieri antichi che tornano a riempire il cuscino assieme a qualche lacrima, eh sì.
Bando alle bambinate, qui si deve ricominciare. Si ricomincia perché non si va in pensione, si va in albergo e a cinque stelle, con tutti i servizi e gli optional al posto giusto. Dunque torna la voglia del lavoro, che mai era scomparsa ma era stata spedita nel canneto dai titolari dell’azienda, ritorna il desiderio di dire, di fare, di scrivere, di rompere gli zebedei a chiunque, non certo alle maestranze dei lavori in corso, come da copione del pensionato tipo. No, ci si rimette in gioco, doveroso, leale, anche sfacciato, una sfida con se stessi, una partita tutta da giocare.
Perché allora capisci che il lavoro è una cosa bella se può e deve dipendere da te stesso, da te solo, che le idee fanno parte del tuo essere ed esistere, hai una testa, non soltanto una faccia. Dunque il moribondo si risveglia, il traumatizzato è vispo, bello fresco, pronto alla battaglia. Dipende. Dipende se non eri già pensionato nel corpo prima che il fatto sindacale e anagrafico si realizzasse. Perché, lo sapete, si segnalano culi di pietra già a vent’anni, esistono travet che aspettano il ventisette e il sessantacinque, numeri di paga e di ritirata dalle armi, un esercito di fancazzisti che della pensione fanno il loro trofeo esistenziale, impiegati della vita, mezzemaniche del quotidiano. Sono quelli che per primi protestano perché il posto di lavoro non si tocca, anche perché, spesso, alcuni di loro l’hanno soltanto toccato e non vissuto.
Il prepensionato risale, recupera lo svantaggio, riacciuffa il gruppo, addirittura tenta la fuga, per dimostrare che qualcuno si è sbagliato, gli anni non sono quelli dei documenti di identità, provare per credere. Un mio collega inglese, a chi gli domandava quanti anni avesse rispondeva con un sorriso: «Dipende dall’uso che ne deve fare». Eccomi qua, pronto all’uso e all’abuso. La pensione è un’isola del tesoro per chi non aspirava ad altro, per chi, ovviamente, abbisogna di riposo vero, sacrosanto dopo aver battuto la lastra, tanto, troppo ma è guinzaglio fastidioso e umiliante per chi ha voglia ancora di lavorare, di essere utile e a volte, ebbene sì, indispensabile, scrivere, studiare, agire, fare, infiniti presenti di verbi al futuro.
Resistere, resistere, resistere, al logorio della vita moderna, ai regolamenti stupidi, allo stato di crisi e alla crisi dello Stato. Lavorare è bello e lo scopri quando sei tu a deciderlo, quando la sveglia suona perché non hai appuntamenti se non con te stesso, con tutto quello che hai deciso di costruirti, di allestire, di mettere in atto anche per gli altri. Per gli stessi che qualche tempo prima hanno deciso di mandarti fuori dalla giostra perché il tempo era finito, il biglietto scaduto. Idioti.

Il lavoro è mio e lo gestisco io, più di prima, meglio di prima, con le gratificazioni e i sorrisi e le frasi che non sono più di circostanza, patetiche, compassionevoli. Almeno lo spero.
Comunque la pensione è chiusa, l’albergo a cinque stelle va che è un piacere. Si accettano anche posti in piedi. La vita è bella. Pensionati si nasce, lavoratori si diventa.

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