Risanamento, scontro finale Procura-banche

Lo scontro tra Procura di Milano e banche sul futuro di Risanamento è alle battute finali. In settimana si saprà se l’ex gruppo di Luigi Zunino fallirà oppure no: lo deciderà il tribunale, che se rigetterà l’istanza di fallimento presentata l’estate scorsa dalla Procura, darà via libera al piano di rilancio elaborato dalle banche creditrici e dai consulenti, oggi oggetto di un procedimento parallelo in corso sempre al tribunale di Milano.
Le banche, esposte per buona parte dei 2,9 miliardi di debiti che gravano sul gruppo, sono fortemente interessate a un verdetto della magistratura che eviti lo smembramento e permetta al gruppo di andare avanti. Ma la Procura - la tesi è nota - dà un giudizio negativo sul piano di ristrutturazione, ritenendo insufficienti i mezzi finanziari freschi che verrebbero apportati. I Pm inoltre ritengono che il patrimonio di Risanamento, composto da «beni al sole», per loro natura non deperibili - e cioè immobili, terreni e progetti in via di sviluppo - non verrebbe svalorizzato, e che anche in caso di bancarotta manterrebbe la propria identità e consistenza materiale. Altro elemento tenuto in considerazione dalla Procura è che questo «caso», a differenza di molti altri dissesti industriali anche recenti, non presenta un’urgenza sociale in termini di posti di lavoro e di interesse strategico per la collettività. Per la Procura, insomma, il fallimento sarebbe l’esito più trasparente di una crisi nella quale il peso maggiore lo hanno avuto gli aspetti squisitamente finanziari.
La tesi contrapposta delle banche - che sostengono la necessità di mantenere continuità al gruppo - si regge su interessi legati alle singole situazioni finanziarie, che verrebbero fortemente penalizzate dal fallimento. Una ragione su tutte: se le sorti di Risanamento passassero nelle mani del curatore, i crediti degli istituti si trasformerebbero, nei loro bilanci, in sofferenze proprio nel momento in cui tutti i maggiori gruppi esposti stanno compiendo ingenti sforzi per migliorare i propri coefficienti di solidità patrimoniale; i tre istituti maggiormente esposti hanno scelto strumenti diversi, Unicredit l’aumento di capitale, Intesa Sanpaolo le dismissioni e il Banco Popolare i Tremonti bond. Nuove sofferenze, per centinaia di milioni di euro, sarebbero un elemento fortemente negativo in questo quadro di riequilibrio, e le banche non se lo possono permettere; i loro crediti, inoltre, non avrebbero privilegi nella spartizione del patrimonio liquidato.
Un altro elemento di contrasto di vedute tra istituti e Procura riguarda il valore degli asset immobiliari. Nel caso di fallimento gli immobili andrebbero sul mercato, ma - secondo gli istituti - sarebbe insensato vendere in questo momento di crisi economica, che imporrebbe prezzi di svendita, sempre ammesso di trovare compratori. L’esito sarebbe particolarmente incerto per i due grandi progetti incompiuti, Santa Giulia e Falck. Secondo le banche creditrici meglio invece sarebbe aspettare il momento più propizio, tra qualche anno, per poter dare a quel patrimonio un valore commerciale soddisfacente.La tesi si basa su una considerazione di fondo: i beni immobili, pur soggetti a cicli pluriennali, in prospettiva non tradiscono mai se l’ottica del profitto deve essere orientata a un arco temporale di medio-lungo termine. Condividono le preoccupazioni delle banche anche i fornitori-creditori del gruppo e gli obbligazionisti, che dal fallimento temono riflessi peggiori.

Il piano prevede di garantire i creditori non bancari (i crediti dei fornitori pesano per 40-50 milioni) che invece dovrebbero aspettare i tempi biblici di un riparto post-liquidazione. Anche i portatori di obbligazioni con scadenza 2014 verrebbero rimborsati dalle banche, mentre perderebbero questo diritto se il tribunale si pronunciasse per il fallimento del gruppo.

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