La questione della legge elettorale, a mò di araba fenice, è risorta in questa fase dalle ceneri. D'altronde, in Paesi come l'Inghilterra, la Francia, la Germania, vige da sempre lo stesso sistema elettorale, mentre l'Italia è il Paese europeo che ha cambiato più leggi elettorali in tutto il periodo della Repubblica. Ci sono però oggi almeno tre ragioni che richiedono l'esigenza di una nuova legge elettorale appropriata. La prima è quella della stabilità dei governi, che per fortuna da oltre tre anni stiamo assaporando grazie a quella sorta di premierato di fatto che si è sviluppato con Giorgia Meloni.
La seconda risiede nel tendenziale sciopero dei cittadini dalle urne, con un astensionismo giunto persino oltre la metà del corpo elettorale con le ultime elezioni regionali.
La terza consiste nell'esigenza di rafforzare e legittimare il ruolo del Parlamento in questa fase più che mai debilitato, specie perché oggi i parlamentari non sono eletti ma sostanzialmente nominati dai capi partito. Se facciamo mente locale, la svolta della seconda repubblica si era avviata proprio puntando sulla stabilità dei governi, e di fatto sull'indicazione diretta del premier. Grazie alla legge che portava il nome di Mattarellum, l'elettore del 1996 o del 2001 andava volentieri a votare sapendo di poter indicare con il suo voto come premier il leader della coalizione vincente, che fosse Berlusconi o che fosse Prodi. E così si inaugurò la stagione del bipolarismo e si era, quindi, in tal modo restituito lo scettro al principe-cittadino, l'unico principe accreditato in una Repubblica. In fondo è proprio questo l'obiettivo che si ripropone anche oggi, quello appunto di come restituire lo scettro al principe.
In attesa del possibile varo della riforma costituzionale del premierato, una nuova legge elettorale dovrebbe puntare a garantire quella stabilità dei governi (un bene prezioso anche per la vita economico sociale del Paese) tramite l'elezione diretta del leader-premier della coalizione come avviene da sempre nell'Inghilterra, madre delle democrazie.
C'è poi la questione di ridare finalmente una legittimazione più chiara e forte al Parlamento, favorendo anche un ben più chiaro radicamento nel territorio e presso gli elettori dei partiti politici. A questo fine l'arma del ritorno del sistema delle preferenze sarebbe quella più appropriata per restituire il gusto del voto e ridare forza e scettro nelle mani dei cittadini elettori. A questo fine basterebbe attingere al modello della legge elettorale regionale, che prevede per gli elettori la possibilità di scelta del presidente della Regione e le preferenze per la scelta dei consiglieri regionali. Spetterà poi alla dinamica parlamentare e al gioco degli equilibri prevedere la possibile aggiunta di qualche forma di premio di maggioranza per disporre di una garanzia in più ai fini della stabilità dei governi.
Negli ultimi anni è crollato il numero degli iscritti ai partiti e quello delle sezioni di partito ma il fenomeno ancora più grave e allarmante è il crollo del numero degli elettori effettivi. Come se il vestito del corpo elettorale fosse caduto in acque limacciose e si fosse decisamente ristretto.
Il rischio è quello che si passi dalla democrazia, che come è noto significa governo del popolo, ad una sorta di "percentualcrazia", governo delle percentuali. Visto che pare che a molti partiti non dispiaccia misurarsi reciprocamente sulle percentuali conseguite ben più che sulla quantità dei voti. Sembra infatti diffuso un certo sordomutismo rispetto alla questione dell'astensione.
Ma è fondamentale una rileggitimazione forte della politica, dei corpi rappresentativi, dei partiti e delle istituzioni. Altrimenti rischiamo di dar corpo effettivo alla sentenza di Paul Valery secondo cui "la politica è l'arte di impedire alla gente di impicciarsi di ciò che la riguarda".