Alla riscoperta delle latterie, rifugio di artisti squattrinati

«Chi guarda gli avventori raccolti in una latteria scopre, sui loro volti, qualche cosa di mite e di sereno: è il latte che si rispecchia nei loro occhi». Scriveva così, nel 1934, il saggista popolare Rossano Zezzos, parlando dei locali milanesi piastrellati di bianco dove, seduti a tavolini di marmo, si sfamavano per poche lire i «solitari senza un focolare».
Era una Milano povera, quella delle latterie, fredda e nebbiosa, popolata di artisti squattrinati che di notte si chiudevano in fredde stanze ammobiliate «dove non c'era mai calorifero più caldo del palmo di una mano», come spesso ricordava Leonardo Vergani. Gli stessi artisti di giorno gremivano le latterie in cui - ricordava il grossetano Luciano Bianciardi - ti servivano il quartino di vinello sfuso nelle bottigliette vuote di Coca Cola. Non esiste locale, a Milano, ricordato con più nostalgia da gente comune e da artisti; da scaltri «ligera» e da fini intellettuali. «Di fronte a un lungo e grigio caffelatte - declamava ogni tanto il grande ligure, Carlo Dapporto, habitué delle latterie milanesi ai tempi della gavetta - i gomiti appoggiati al tavolino, la tazza che fumava, la vista si appannava e l’anima sognava quel che non sogna più». Parole accorate per ricordare quella certa latteria di piazza Beccaria «che adesso, poverina, non c’è più».
Come il locale di piazza Beccaria, le latterie con «cibi cotti» sono sparite da Milano rimpiazzate da bar, ristoranti, negozi specializzati. «Non dimentichiamo - dice un esercente - che la grande distribuzione oggi riempie di tre articoli su quattro la sporta dei milanesi. Tra quei tre articoli, c’è sicuramente anche il brick di latte». Una «sparizione» forse inevitabile, che però a Milano ha lasciato un vuoto. Anche il regista, Carlo Lizzani, rimase affascinato dalle latterie milanesi: «La città era bombardata - dice Lizzani - non c’erano alloggi, si viveva in cinque o sei nella stessa stanza. La latteria Pirovini e il Caffè Brera erano gremiti di giovani intellettuali. Ricordo Carpi, Morlotti, Strehler, Vittorini».
Se lo scrittore e bibliografo, Valentino Ronchi, frequentò in quegli anni difficili ma ineguagliabili del primo dopoguerra la «latteria con tende azzurre» di via Calvairate; e il bellunese, Dino Buzzati fu di casa oltre che al Corriere della Sera, alla Latteria San Marco (ancora esistente), fu il locale delle due sorelle Pirovini più note come le «pie donne» a calamitare tra i suoi tavoli il maggior numero di «grandi». Tra i frequentatori ci furono anche i giovani Eco, Manganelli, Sanguineti, Crovi, Risé, Mulas. Lo stesso Bianciardi, probabilmente, corresse le bozze de La vita agra, proprio in quella latteria di via Fiori Chiari dove, su per ogni scala, c’era una pensioncina. La latteria era situata tra due case di tolleranza, una per benestanti e l’altra più popolare. E forse proprio nell’intento di redimere i suoi squattrinati avventori dal vizio, le due sorelle dimostravano a tutti un cuore d’oro, sperimentato anche dal pittore albanese di Tirana, ma milanese d'adozione, Ibrahim Kodra, che nel primo dopoguerra frequentò a Brera i gruppi «Oltre Guernica» e «Linea». «Alla fine degli anni Quaranta - ricordava spesso l'artista - il mio debito in latteria ammontava a un milione e 700mila lire. Debito che mi venne azzerato quando le due sorelle seppero che mi ero fatto battezzare per sposarmi e prendere la cittadinanza italiana». Poi Kodra non si sposò, ma le Pirovini non ritrattarono mai il loro regalo di nozze.
In un’altra latteria ubicata in via Salvini, ogni tanto cenava frugalmente la contessa Serbelloni Bossi, ricchissima ultraottantenne, con al seguito la cameriera e il cagnolino. Proverbialmente restia a estrarre il borsellino, qualche volta si dimenticava di pagare oppure esclamava in milanese: «Paghi domàn». Il lattaio, Gian Battista Colombo, detto Giobatta, un giorno confidò alla nobildonna che alcuni cinesi gli avevano offerto un sacco di soldi per rilevare la latteria e farne un ristorantino. «Ma te se 'matt!? - esclamò allora la contessa - e poi io dove vado a bere il caffè e a mangiare?». La Serbelloni rilevò il negozio per la stessa cifra offerta dai cinesi, e Giobatta continuò a fare il lattaio pagando solo le spese condominiali.
Giobatta e la contessa non ci sono più. Ma la latteria esiste ancora.

È rimasta tra le poche a Milano a servire pasti a prezzi contenuti agli impiegati e ai residenti della zona. «Uno dei pochi luoghi - dice un cliente - in cui puoi chiedere due uova al tegamino o un riso in bianco senza arrossire».

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