Cronaca locale

Il riso, una storia con la sorpresa: tutto iniziò a Napoli

Le ricette non mancano, ad esempio ecco a pagina 169 il Riso, oro e zafferano di Gualtiero Marchesi, con quella foglia d’oro, commestibile, messa imprezisire il più famoso risotto al mondo, così come un centinaio di facciate prima ci si imbatte nei tre risotti alla milanese di Pellegrino Artusi, ma il libro di Alberto Salarelli, un ricercatore e gastronomo parmigiano, è tutt’altro che un ricettario: Risotto, per i tipi dell’Editoriale Sometti di Mantova, 0376.322430, sometti.com, ci racconta la «storia di un piatto italiano». E qui si deve subito eccepire perché la pasta, nelle sue molteplici forme, di semola, all’uovo o ripiena, è italiana, ma il risotto no. Il risotto è padano, appartiene alle tre regioni dove il riso viene coltivato, Piemonte, Lombardia e Veneto, tant’è vero che è ben difficile trovarlo in quelle nazioni di forte emigrazione meridionale.
Ci sono piatti di riso, che non necessariamente ci appartengono, basta pensare a paella, basmati e sushi ma anche alle tante minestre in brodo, e ci sono i risotti che l’alta cucina internazionale apprezza sempre più ma che resta un elefante bianco perché per una porzione di risotto uno chef deve staccare un cuoco e questo spiega perché in un menù è difficile trovarne più di uno e per una sola persona, la regola è uno appena e per due clienti.
Il riso è presente nel Nord Italia almeno dal XIII secolo, ma è di importazione e per uso dolciario (cotto nel latte) o in preparazione medicinali tanto che veniva venduto nelle spezierie. Le prime piantine sarebbero giunte a Napoli attorno al 1440. La coltivazione del riso parte da lì ed è quasi una beffa per chi si batte per le tradizioni padane. Tutto merito degli Aragonesi che una ventina d’anni dopo ne avrebbero fatto dono a Pisa. Da lì il riso avrebbe viaggiato fino a Milano, con Galeazzo Maria Sforza che nel 1475 lo donò a Ferrara.
Ma questo è il riso e certo siamo lontani dal risotto e dall’imperativo di essere al dente, come nessun’altra preparazione. Scrive Salarelli: «La ricetta canonica verrà finalmente elaborata in Italia tra la fine del Settecento e gli inizio dell’Ottocento». Il suo racconto ha un ampio respiro e la ricchezza di citazione non l’appesantisce.
Il risotto nasce da una tostatura in un grasso, oggi olio o burro, ieri anche il midollo (in alternativa al burro), e dal tocco di acidità del vino (poco, deve evaporare subito) a cui seguirà una pazienza cottura nel brodo fino alla mantecatura finale, panna o burro più grana. Il risotto è racchiuso tra due parentesi grasse e conserva tensione propria all’interno di ogni chicco. Vale anche per i maestri contemporanei.

Nel libro spuntano Adrià e Blumenthal, ma possiamo pensare anche a chef italiani come Alajmo, Cracco, Lopriore, Oldani, i fratelli Cerea e i fratelli Costardi e alle loro nuove forme di risotto che ne arricchiscono il mito.

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