Rispunta Mancino: una vita in slalom tra guai e scandali

Il suo nome figura nell’elenco di Anemone, ma lui nega favori. In passato il vicepresidente del Csm è sempre uscito indenne

Pur essendo uomo schivo, Nicola Mancino finisce suo malgrado e a intervalli regolari sotto i riflettori. È come se il Destino, comandato da un metronomo, gli facesse cadere una tegola al tic, un’altra al tac, e poi di nuovo al tic e al tac, tic tac, tic tac. Va subito detto che questo accanimento del Fato è così inutile da sfiorare l’idiozia dal momento che l’attuale vicepresidente del Csm è sempre uscito indenne da tutte le vicende.
Adesso è comparso tra coloro cui il costruttore Diego Anemone ha fatto lavori in casa. Il pensiero dei maligni è stato: gatta ci cova. Ossia che Mancino, in qualità di potente, avesse spianato la strada all’imprenditore e che questi si fosse sdebitato con ristrutturazioni gratuite. Il vicepresidente ha smentito lo scambio dicendo che non ha mai fatto né ricevuto favori. Siate certi: ha ragione lui. Nicola è troppo prudente, oserei dire fifone, per cadere in certe trappole. I suoi affari li sa fare ma con tutti i crismi di legge. Anni fa, finì nel vortice con altri politici - Marini, Veltroni, Violante, altri - per l’acquisto di un appartamento a prezzi di favore. Bella casa davvero. Dieci vani in corso Rinascimento proprio di fronte al Senato. La pagò la bellezza di 1,5 milioni però si disse che valeva 2,7. Nicola non fece una piega. Spiegò che il prezzo era congruo perché già l’abitava e aveva solo usufruito degli sconti di legge per l’occupante, mostrò il contratto, i certificati di rito, i listini immobiliari dell’epoca, ecc. E tutto finì in una bolla di sapone. Com’era giusto che fosse poiché non si può pretendere, nemmeno da un politico, che si dia la zappa sui piedi rinunciando alle pieghe della legge o a legittimi privilegi. La vicenda ci dà la misura del suo carattere: rispettoso del quadro normativo, onesto, perfino galantuomo, ma fesso, no.
Se lo fosse stato non si spiegherebbe che a 78 anni sia ancora sulla breccia. È l’ultimo superstite della vecchia Dc a ricoprire una carica di grande rilievo. Da quattro anni, è il vicario del presidente della Repubblica nell’organo supremo dell’ordine giudiziario. La sua fu un’elezione bipartisan. Conoscendone la cautela, l’assoluta mancanza di fanatismo, dette il suo assenso anche il Cav pensando che il temperamento morbido avrebbe sparso un po’ di valium tra le toghe. In questo sbagliava poiché il risvolto della prudenza manciniana è che, al dunque, è tremebondo.
Se fosse per lui ogni cosa si appianerebbe, ci sarebbe una soluzione per tutto, non accadrebbe mai nulla. Purtroppo, invece, è finito in un vespaio, allo zenit del conflitto tra politica e magistratura. Lui che detesta avere attorno giornalisti se li è trovati tra i piedi a Palazzo dei Marescialli (sede del Csm) in diverse occasioni. Durante il suo consolato è scoppiato il peggiore scandalo repubblicano tra giudici: i ferri corti tra le procure di Salerno e di Catanzaro. Ricorderete l’esilarante - si fa per dire - scontro tra toghe in cui le une indagavano le altre, perquisivano reciprocamente i rispettivi uffici e per poco non si arrestavano vicendevolmente. Tutto per quel bel tomo di De Magistris che, protetto da Salerno, era invece in uggia a Catanzaro. La cosa poi finì. Non però per l’iniziativa di Mancino ma perché il giovanotto buttò le pandette alle ortiche e passò in politica. Già in quella occasione, il Nostro fece la figura dell’asino in mezzo ai suoni. Troppo timoroso per battere i pugni, lasciò campo libero alle iene tra il disgusto generale.
Ci fu poi il caso di Clemente Mastella che era Guardasigilli del governo Prodi. Un bel giorno, un pm che non ne aveva la competenza, mise in ceppi Sandra Lonardo, la moglie del ministro. Questi, sull’orlo del pianto, si dimise e, ormai su di giri, accusò la magistratura di parzialità. Apriti cielo. Diciannove consiglieri del Csm chiesero una riunione urgente per condannare l’offesa. Mancino si mise le mani nei capelli - ancora molto folti per l’età - perché la questione era delicata. Mastella era infatti parlamentare e le parole dette in aula non potevano essere censurate. Quando, un quarto di secolo fa, accade un caso analogo per delle critiche del premier Bettino Craxi ai giudici, Cossiga - che all’epoca era capo dello Stato e perciò presidente del Csm - avvertì: «Se mettete all’ordine del giorno la censura a Craxi, io vengo con i carabinieri e annullo la seduta». Detto, fatto. Il giorno previsto per la riunione, militi autocarrati in tenuta antisommossa circondarono Palazzo dei Marescialli pronti a intervenire all’ordine del fremente Cossiga. Di fronte ai cannoni, il Csm sventolò bandiera bianca. Forte di questo precedente, Nicola avrebbe potuto tirare le briglia sulle mascelle dei suoi scalpitanti consiglieri. Invece - prima che la cosa si risolvesse da sé - rimase con gli occhi nel vuoto chiedendosi perché mai dovevano capitare tutte a lui che voleva solo occupare ancora una poltrona per poi godersi la pensione.
La chiamo pensione ma - quando verrà il momento - sarà l’equivalente di un’eredità dello zio d’America. Nicola ha sulle spalle otto legislature, la presidenza del Senato, due anni come ministro dell’Interno. Una grande carriera per l’umile figlio della rurale Montefalcione (Avellino). Mancino deve tutto - salvo le prebende dell’ultimo decennio - a Ciriaco De Mita, per lustri ras dell’Irpinia, dei cui diktat è stato devoto esecutore.
Anche di aspetto, Nicola ha l’aria dell’uomo di fatica. Alto e ben piantato, ha occhi sporgenti e testa quadra. Un perfetto esemplare di quei pretoriani di campagna che gli antichi mercanti mettevano all’asta nel foro. Gli amici lo chiamavano «Piedone» soprannome che - almeno fisicamente - lo riassume a meraviglia. Gran lavoratore e sofferente di insonnia, Piedone è sveglio dalla cinque di mattina. Quando era al Viminale, il suo capufficio stampa, Paolo Palma, doveva preparargli la rassegna dei giornali all’alba. Paolo è stato poi premiato con un seggio alla Camera. La staffetta, ancora insonnolita, arrivava col malloppo nella casa illuminata dalla luna.
Il suo primo maestro fu Fiorentino Sullo, indimenticato ministro dc della Pubblica Istruzione. Suoi condiscepoli furono Gerardo Bianco e il già citato Ciriaco. Del gruppo, De Mita era considerato l’attaccante, Bianco l’intellettuale, Mancino il «mastacconcia», cioè l’esperto nell’acconciare, ovvero recuperare rapporti e risolvere vertenze. Era, insomma, il cerchiobottista della squadra. Agli esordi, Mastacconcia ebbe l’incarico di combattere i monarchici di Achille Lauro, allora padroni della Campania. Secondo la sua natura, li neutralizzò con la vaselina restando amico personale delle vittime.

Quando alla fine degli anni ’60, De Mita fece le scarpe a Sullo sottraendogli l’elettorato - il più celebre parricidio repubblicano -, Piedone si mise al servizio del condiscepolo diventato padrone. È rimasto alla sua ombra finché, alle soglie del Terzo millennio, Ciriaco esaurì le sue cartucce. Da allora fa da sé, schivando serenamente le innocue tegoline del suo capriccioso destino.

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