Il «ritiro» di Obama dall’Irak: restano centomila americani

Obama ha parlato. E bene, come di consueto. Ma ha detto tutta la verità sull’Irak? La risposta è no. Non ha mentito, ma non ha detto tutto. Per capire davvero che cosa stia accadendo occorre considerare anche la parte che il presidente degli Stati Uniti ha omesso e che non è affatto trascurabile. Conta per almeno il 50%.
Obama ha annunciato il ritiro delle truppe dall’Irak, sostenendo di avere mantenuto la promessa formulata in campagna elettorale. Per ritiro si intende, di solito, un ritiro completo, in realtà Washington ha richiamato al 31 agosto decine di migliaia di soldati. Ma non tutti. Ne restano ben 50mila e non per poche settimane, ma fino alla fine del 2011. Sempre che, nel frattempo, il governo iracheno non chieda alla Casa Bianca di prolungare la permanenza.
L’annuncio appare, pertanto, retorico e fuorviante. Ma soprattutto incompleto; perché il numero delle forze legate agli Usa ancora presenti in Iraq è doppio, se si considerano anche i contractors ovvero le guardie private, i funzionari e gli addetti esterni, adibiti alla sicurezza e agli approvvigionamenti. Il rapporto è di un contractor per ogni soldato. In marzo c’erano 95mila uomini in uniforme e 95mila impiegati di società esterne, ma sotto l’egida dal governo Usa. Ora sono scesi a rispettivamente 49.700 e 50.000. Totale: 100mila. Un po’ troppi, ne converrete.
Eppure nessuno racconta questo aspetto della grande storia della guerra di liberazione in Irak, se non di tanto in tanto, per motivi strumentali.
Ricordate la vicenda della Halliburton, la multinazionale texana specializzata in infrastrutture e lavori pubblici? Nel 2004 fu la prima ad ottenere un appalto per la ricostruzione dell’Irak. La stampa quell’anno denunciò il ruolo dell’allora vicepresidente Dick Cheney, che in quanto ex numero uno della stessa Halliburton, avrebbe favorito la sua ex società. Dopo qualche mese si scoprì che il colosso texano lucrava pesantemente sulle commesse, ad esempio fatturando la benzina a un prezzo quadruplo rispetto a quello di mercato. Accuse analoghe vennero rivolte al capo del Pentagono Donald Rumsfeld, che avrebbe favorito tante aziende a lui amiche.
I giornali scrissero che questi maneggi testimoniavano la crescente corruzione dell’amministrazione repubblicana. Che quello di Bush non fosse un governo integerrimo è fuor di dubbio, ma non rappresentava certo un’eccezione. Semmai, la regola, a cui Obama, naturalmente, si è adeguato.
I contractors ormai fanno parte integrante del sistema di gestione dello Stato. Un sistema che è stato disegnato non da Bush, ma da Clinton; il quale alla metà degli anni Novanta ha fatto approvare in Congresso una norma che consente a un’agenzia statale di dare in appalto a società esterne servizi di propria competenza, senza concorso e nemmeno notificazioni pubbliche. Trattasi di negoziazioni individuali che sfociano in mandati discrezionali, che restano nell’ombra, come documentato dalla studiosa americana Janine R. Wedel nel saggio «Shadow elite».
Si trattasse di appalti minori, come i servizi di pulizia, questa liberalità potrebbe avere un senso, ma negli ultimi quindici anni il Pentagono ha affidato a ditte esterne gran parte della logistica di supporto e della gestione degli approvvigionamenti, talvolta persino (e mi riferisco alla Cia) la gestione di database con informazioni sensibili nella lotta al terrorismo.
Una norma ideata per migliorare l’efficienza del Moloch statale ha prodotto l’effetto opposto: un’esplosione dei costi e un peggioramento dei servizi.

In teoria lo Stato riduce il personale assunto, in realtà trasferisce funzioni pubbliche ai privati che però operano in regime di monopolio e senza efficaci meccanismi di controllo. Il conto lo paga il contribuente. E che conto: la guerra in Irak è costata finora 900 miliardi di dollari, molti dei quali a beneficio dei contractors e dei loro referenti politici. Che non sono solo repubblicani.

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