Nel 1985 uscì un film che diventerà un culto per chi ha vissuto la sua adolescenza negli anni Ottanta: Ritorno al futuro, che rese Michael J. Fox l'attore più famoso del mondo, sebbene già lo conoscessimo nel ruolo di Alex della serie Casa Keaton. I sessantottini non ne sanno niente, come il mio amico Fulvio Abbate, che quando Matteo Renzi portò una DeLorean alla Leopolda lo attaccò scambiandola per un «dragster americano», ma scherziamo? Questo per dirvi che un film, anzi un documentario da vedere assolutamente, il più bel docufilm del momento, è Still: la storia di Michael J. Fox. Al quale, all'apice della sua carriera, a ventinove anni, fu diagnosticato il morbo di Parkinson. Se non siete abbonati a Apple Tv vale la pena di spendere otto euro per un mese di abbonamento solo per guardarsi Still.
È la storia di Michael, che si ritrovò con una grave e incurabile malattia degenerativa nel '91, quando era l'attore più famoso del mondo. Montata benissimo, con backstage e scene tratte dai film sincronizzate a Michael nel presente che racconta se stesso, dall'infanzia alla tragedia, avendo fatto accordi con il regista perché non ci fossero «musiche con violino» né niente di compassionevole, niente che potesse far dire allo spettatore «poverino».
È una storia edificante, anche, ma appunto con nessun cedimento al sentimentalismo e nessuno spiritualismo, una grande lezione di vita di un grande uomo. Basti pensare che il ventenne attore recitava in Casa Keaton dalle nove al tardo pomeriggio, per poi andare a girare Ritorno al futuro fino a tardi, dormendo tre ore a notte, e questo per tre mesi e mezzo. Quando gli fu diagnosticato il Parkinson, una forma rara che colpisce in giovinezza (in genere succede alle persone oltre i settanta), la sua vita crolla, ma lui decide comunque di andare avanti con il suo lavoro, nascondendo al mondo il segreto. Per farlo prende pasticche su pasticche (il cervello con il Parkinson non produce più dopamina), calcolando il tempo dell'effetto del farmaco per andare in scena senza manifestare il tremore alla mano e al braccio.
Tracy Pollan, che conosce sul set di Casa Keaton e sposa nell'88, rinuncia alla sua carriera per accudire i quattro figli, e quando lui riceve l'infausta diagnosi («il neurologo mi disse: non c'è cura, non puoi fare niente»), lei gli risponde «nella salute e nella malattia». Ma l'enorme lezione di questo docufilm è la verità, l'importanza della verità. Michael lo ripete più volte: il successo? Un'illusione. Il Parkison? Una verità. E proprio quando decide di rivelare la verità al mondo, di fare coming out, diventa se stesso, un nuovo se stesso. Smette di nascondersi, scopre una nuova missione: essere un uomo famoso colpito da una devastante malattia e diventare un simbolo per i malati.
Le riprese si fermano, ogni tanto, perché deve prendere una pillola per avere di nuovo un'espressione, riprendere possesso del proprio corpo. «Che effetto ti fa, Michael, quando prendi una pillola?». «È come aspettare l'autobus. Aspetto che faccia effetto». «Ora stai ancora aspettando l'autobus?». «No, ora va già meglio, sono sull'autobus, sto facendo il biglietto».
Ironico, comico, non vuole essere compatito, cammina come una scimmia ubriaca, si ostina a uscire e camminare «anche se spavento le persone». Incrocia una ragazza che lo riconosce e gli dice «Mike!», lui la saluta barcollando, casca, si rialza e le dice «Mi hai steso!». Non è un docufilm, è un capolavoro di forza e volontà e lucidità.
Grazie a lui sono stati raccolti due miliardi di dollari per la ricerca sul Parkison. In famiglia lo prendono in giro, perché risponde ai messaggi anche dopo venti giorni, «ma solo perché non riesco a digitare, magari cerco di scrivere ti voglio bene e mi ritrovo su un sito cinese».
Ribadisco, nessun vittimismo, nessuna voglia di essere compatito, nessuna metafisica dell'esistenza, e anzi un elogio di chi combatte l'ipocrisia e ogni doppia vita, in ogni situazione. Perché: «La vera malattia sono i segreti».
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