Ritorno a rilento dopo 15 anni senza concerti

Elegante ma tesa, la controversa popstar ha pagato lo scotto della lunga assenza dalle scene

Paolo Giordano

nostro inviato a Barcellona

E poi al cocktail, in quella saletta dietro al palco, c’era pure il trasognato David LaChapelle, di passaggio con il suo film Rize in anteprima alla Festa del Cinema di Roma, e ancora manager, e giornalisti, e modelle su tacchi da concerto rock. Cin cin. Insomma, sabato sera al Palau Sant Jordi c’era quell’atmosfera golosa che aspetta i grandi eventi e, diamine!, il ritorno in scena di uno dei signori delle classifiche, un tipo che sa di anni Ottanta ma non si è fermato là, è una data da sottolineare nelle agende che contano. E così, poco dopo «las diez de la noche» quando la sua voce è spuntata da là dietro e ha iniziato un’imprevista Waiting, i diciottomila del Palau hanno sgranato gli occhi: signori e, soprattutto, signore ecco George Michael, che si è stufato di farsi vedere solo sui rotocalchi, che ha sofferto, che è una delle più belle voci in circolazione, che ora torna finalmente a cantare in concerto dopo quindici anni, saltando fuori dalla parentesi di tempo nella quale si era ficcato chissà perché. E però, vestito di nero lucido come un dandy, la barba curatissima a levigare gli spigoli del volto, sul palco è salito il George Michael com’è ora, grandioso e colto interprete di se stesso, e non più nei panni di gigolo pop come quando negli ultimi show prima dell’esilio agitava i fianchi cantando I want your sex in un tripudio di allusioni, di ammiccamenti indistinti, di epifanie sensuali delle ragazzine. Quanto tempo fa. Negli anni Novanta George Michael ha perso la madre e il grande amore, ha litigato con la casa discografica, ha fatto il doloroso coming out sulla sessualità ed è finito a servire il pranzo ai malati di Aids per punizione dopo esser stato pizzicato da un poliziotto mentre cercava sesso anonimo in una latrina di Los Angeles. In poche parole, Georgios Kyriacos Panayiotou, che è il suo vero nome, ha continuato a vivere lasciando cristallizzare la popstar George Michael nell’immaginazione dei fans. Qualche apparizione in tv, qualche successo, molte fughe dai paparazzi nascosto nella sua Mercedes. Anche l’altro giorno, quando è arrivato all’aeroporto di Barcellona, ce n’era una nera ad aspettarlo, tra i fotografi: poi via nel buio della vigilia. Era agitatissimo.
D’altronde, dopo lo scontato «ola Barcelona», cantando Flawless sull’enorme palco fregiato da un ledwall che scende a tenda proprio al centro, George Michael qui inizia subito nervosamente a camminare e i gesti richiamano inevitabilmente gli anni 80, le mosse che erano sue, proprio loro. Ma la voce è cresciuta, è più sofferta, è quella di un autore che ora si veste a malincuore con il suo passato. L’abito ha il taglio della grisaglia di Michael Douglas in Wall Street (1987), ma la voce è quella di oggi, gonfia di soul, di funky, quasi di jazz e sempre meno di pop. A quello pensano comunque i sei coristi. E anche l’enorme band disposta su tre piani si ritrova con il talento disoccupato, appiattito dagli arrangiamenti déjà vu che accompagnano l’ancheggiante Too funky, poi Star People, la dolcissima Jesus to a child e pure Father figure (che George Michael canta, come molte altre, appoggiato a un seggiolino). E così, a furia di rimaner sospeso, e per di più diviso in due atti, il concerto non decolla, si distrae con il megaschermo che qui e là esplora la grande chiesa dei famosi, rimandando i volti di Sinatra, di Kennedy, di Mandela, di Marilyn, di quelli insomma che tutti amano per forza. E prima di andare a cambiarsi d’abito (più grigio, sempre rilucente però), il coup de theatre di Shoot the dog, con il bambolone gonfiabile di Bush con sigaro e whisky (dalla cui patta dei pantaloni fuoriesce un equivoco mastino con i colori della Gran Bretagna) richiama i boati facili del pubblico ma fa saltare gli equilibri del concerto.

Se per fortuna nella seconda parte, che scintilla di Faith, Careless whisper, I’m your man, Outside e della finale Freedom (ma manca Wake me up before you go-go), lo show riprende finalmente fiato, non riesce comunque a trovare l’ossigeno della novità, dell’idea, dello scarto improvviso. Potrebbe essere lo scotto che si paga al rodaggio dopo tre inesorabili lustri di letargo. Oppure no, e peccato.

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