Quel "Ritratto di donna" libera Klimt con i colori

L'opera della Galleria Ricci Oddi di Piacenza mostra una persona umana, non più mitica

Quel "Ritratto di donna" libera Klimt con i colori

Vedo le prime pagine dei principali quotidiani italiani, e leggo: «Ora l'Europa ha un piano. Governo, Conte risponde alle Sardine: Sono pronto a incontrarvi», oppure «Voto su Salvini, ira Pd-M5S», «Craxi supera Di Maio»; oppure, «Il Governo Carola». Mi aspettavo di leggere: «Il ritorno di Gustav Klimt», ovvero «Klimt ritrovato». Anche in basso, a fondo pagina. Niente. La notizia merita la pagina 20 o 21, quando va bene. O anche niente. Eppure l'annuncio della Polizia di Stato, con i periti che dichiarano l'autenticità del Klimt, dalla sede della Banca d'Italia di Piacenza, dove il dipinto è stato penosamente esposto senza cornice sopra un cavalletto, davanti a una miserabile serie di vetrine con molte coppe di gare sportive dimenticate, vale più delle attività strumentali della giunta per le autorizzazioni a procedere del Senato, o dei conati di Europa di una nazione isolata e senza dignità. Eppure siamo, e restiamo, il Paese più bello del mondo, e ci possiamo permettere anche alcuni capolavori di Klimt il cui valore sfiora il miliardo di euro (tanto per stabilire parametri economici anche molto marginali, a indicare il patrimonio dello Stato): Le tre età della donna della Galleria Nazionale d'Arte Moderna di Roma, uno dei capolavori dell'umanità, concepito nel 1905; la Giuditta della Galleria Internazionale d'Arte Moderna di Venezia, del 1909, e il Ritratto di donna, ora ritornato alla Galleria Ricci Oddi di Piacenza.

Se fossimo quello che dovremmo essere, le prima pagine dei giornali sarebbero occupate dall'immagine ansiosa e accorata di questa giovane donna dai capelli scuri con le guance arrossate, lo sguardo pieno di nostalgia, il richiamo a un amore o a un desiderio. Klimt è uscito dalla sua prigione d'oro in cui si muovevano agevolmente la Giuditta I, del 1901, gli eroici personaggi del Fregio di Beethoven, del 1902, le Bisce d'acqua o Le amiche del 1904, la Danae, in piena estasi erotica, del 1907. Oro, sempre oro in cui si calano gli abbracci e i baci, e anche la speranza. Nel nuovo decennio del secolo, passato indenne attraverso il Futurismo, Klimt si libera anche dall'oro, sua corazza in difesa dalle avanguardie, ed entra in una stagione che potremmo dire «mahleriana», in corrispondenza con il tempo più drammatico del grande musicista, con Das Lied von der Erde (Il canto della terra), con la Nona sinfonia, con i frammenti della Decima sinfonia.

La morte era comparsa nella vita di Mahler nell'estate del 1907. Il 5 luglio il compositore aveva perso all'improvviso la figlia Marie. A distanza di pochi giorni, gli fu diagnosticata una grave disfunzione cardiaca congenita. L'esperienza della morte e della malattia indicano una frattura, che separa due epoche della sua vita professionale e creativa. Mahler lasciò quell'anno anche la villa di Maiernigg, in Carinzia, dove era solito trascorrere l'estate componendo. Si trasferì l'anno seguente in una piccola fattoria ad Altschluderbach, nel Tirolo meridionale, vicino a Dobbiaco. Il mutato paesaggio rispecchia la trasformazione profonda avvenuta nell'animo del musicista. Mahler aveva abitudini piuttosto rigide. Si rinchiudeva per lavorare in una casetta in mezzo al bosco, come se la sua anima potesse respirare solo a contatto con la natura, il mondo altro e felice rispetto a quello doloroso degli uomini. Il confronto tra le due casette, quella di Maiernigg e quella di Altschluderbach, è eloquente. E le ritroveremo nei paesaggi di Klimt. La prima è una solida costruzione in muratura, nascosta e protetta dalla vegetazione, con i rami degli alberi che entrano fin quasi dentro la finestra; la seconda, invece, una fragile edicola in legno, ai margini del bosco di abeti, immersa nella luce radente filtrata dai rami. L'una pare un tempio, l'altra un eremo. In questa nuova dimensione ascetica Mahler iniziò ad abbozzare la Nona sinfonia, nell'estate del 1908. La Nona, cresciuta in simbiosi con il ciclo vocale Das Lied von der Erde, fu completata l'1 aprile 1910. Mahler morì nel 1911, e non poté ascoltare le sue ultime opere, che furono eseguite postume.

Per Klimt questo è il momento di Madre con figli, di intensa malinconia, dove i capelli avvolgono i corpi della madre e dei bambini. E anche di Morte e vita, nel contrasto tra l'allegoria della morte, quasi monocroma, e il gruppo di corpi intrecciati, coloratissimo, a rappresentare la vita. Lentamente il pittore entra in una liberazione del colore e della umana tenerezza dei volti dalla rigida struttura grafica a intarsi di mosaico delle sue opere precedenti. I colori si coagulano come murrine e la carne, con la sua morbidezza, ritrova il calore della vita. Sono gli anni di Wally, distrutto nell'incendio del Castello di Immendorf nel 1945, della Leda e del Ritratto di Maria Munk della Neue Galerie di Linz, il più simile al dipinto di Piacenza, a quello che potremmo dire un Klimt liberato, umanizzato. Siamo nel 1916-1917: con la guerra crolla l'Impero Asburgico, l'Austria Felix che si era illustrata nel luminoso sfarzo dorato di Klimt. Le femmes fleur, come Emilie Flöge, o gli «uccelli esotici», come Adele Bloch-Bauer, non attraversano più lo studio di Klimt. La donna immersa nel verde è sorella di Eugenia Primavesi (la moglie di Otto, il comproprietario della ditta Wiener Werkstatte): entrambe sono affini ai personaggi dell'entrante Matisse, e indicano una convergenza verso il gusto Fauves.

La donna della tela di Piacenza, fragile e in instabile equilibrio, mentre si volge verso di noi, ha un'umanità nuova: gli occhi languidi, sognanti, ci parlano di una interiore fragilità, che il fiorito abito leggero sembra sottolineare. Più essenza che esistenza, la donna sembra sul punto di svanire, e non è più una creatura fascinosa e irraggiungibile, non è proiettata nel mito, ma inquieta sulla terra, nell'aria fragile della sua esistenza lontana dal mondo degli dei. Ma è soprattutto una donna moderna, espressa con una libertà pittorica quasi unica, in questo momento terminale della produzione di Klimt. Sarà Eugenio Montale a descrivere questa condizione più o meno negli stessi anni: «Tendono alla chiarità le cose oscure,/ si esauriscono i corpi in un fluire/ di tinte: queste in musiche. Svanire/ è dunque la ventura delle venture».

In questa fase Klimt appare completamente mutato. Di lì a poco si muoverà verso il ritratto, umanissimo e senza ornamento alcuno, di Johanne Staude, cogliendo una identità che era stata colta soltanto da Holbein e da Lorenzo Lotto, e l'incompiuto e prodigioso La culla, trionfo dell'infanzia in un mirabile groviglio di panni, di esecuzione così libera da far invidia a Kandinsky.

Questi ultimi dipinti sono una estrema confessione. Ce lo dice lo stesso Klimt: «chi vuole sapere più su di me, cioè sull'artista, l'unico che vale la pena di conoscere, osservi attentamente i miei dipinti, per rintracciarvi chi sono e cosa voglio».

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