La rivincita delle amanti

Concubine, mantenute, amiche: la docente canadese Elizabeth Abbott indaga il lato oscuro della condizione delle donne e stila un catalogo delle «altre», dall’antica Grecia al Novecento

Sto stendendo il bucato, sono un uomo, ho una certa età, sono single, non sono gay, e mi domando: cosa ne penserebbe, dal punto di vista sociologico, storico, Elizabeth Abbott, con le sue categorie maschili e femminili? È veramente un buon libro la sua Storia delle altre. Concubine, amanti, mantenute, amiche (Mondadori, pagg. 608, euro 23)? È un testo che serve, che illumina, oppure intrattiene soltanto, per il suo brio, per il suo tono spiritoso, viziando però concetti e presupposti?
Le faccende domestiche inducono a continuare nella divagazione personale, che si spera il nostro lettore voglia farci passare perché esemplificativa e pertinente. Nei primi anni Sessanta, quelli che l’autrice identifica tout-court con la rivoluzione sessuale, con l’inizio della liberazione femminile e del dilemma di scelta fra tradizione e nuovo, io amavo, diciamo, Melissa. Melissa aveva un marito ed eravamo tutti e tre amici. Un giorno che lui mi accompagnava a casa, gli dissi che ero innamorato di Melissa, e lui, che prevedeva un inevitabile sviluppo della situazione in questo senso, mi disse: non sarai mai felice con Melissa. Anche se sembra la scena di un film di Antonioni, ciò che si vuol sostenere è che questa situazione poteva svolgersi anche negli anni Trenta o negli anni Novanta; che Melissa, finché esistette, non fu un’amante, né una donna liberata, né tradizionalista; che la sua-nostra storia non era considerata dalla società circostante né regolare né irregolare; che la vita è troppo complessa per essere schematizzata e inscatolata come in una rubrica «femminile», per quanto intelligente, di osservazioni di costume; che la «gente» d’ogni epoca e luogo è come se fosse sempre di là e più avanti delle etichette che poi, facendo presunta storia, si tende ad applicarvi.
Elizabeth Abbott, canadese, docente all’Università di Toronto, qualche anno fa pubblicò una History of Celibacy, inedita da noi. In quel libro, l’autrice ricordava che il celibato appartiene non solo al cattolicesimo ma in qualche misura a ogni cultura e religione (come l’astinenza sessuale durante le mestruazioni nelle norme giudaiche, o il celibato delle vedove nella tradizione induista), e che esso è stato sempre una condizione o voluta (come voto o scelta di vita) o subita (come nella castrazione per i sopranisti dell’opera settecentesca o per gli eunuchi turchi e cinesi). Nella Storia delle altre, Abbott approfondisce il suo approccio della condizione femminile, e fa un grosso lavoro compilatorio per settore: l’amore irregolare nell’antichità, le concubine orientali e l’harem, le amanti dei re di Francia, gli accordi matrimoniali e i triangoli, le consorti clandestine, le amanti come muse o come trofeo, la trasformazione degli anni Sessanta, e così via.
C’è il sospetto che, con l’inventariare le varie forme «irregolari» del rapporto uomo-donna attraverso i tempi, questo modo di procedere preveda che esista oggi un oggettivo parametro di giudizio, quando invece si situa semplicemente in un momento della storia, e che vi sia attualmente un livello accettabile di «alterità» delle «altre», tale da confortarci tutti rispetto al passato. In realtà, pur nel suo sviluppo, una società resterà arcaica, su questo fronte, finché esisterà il problema.
Schiava della matriarca Sara, Agar, la giovane concubina egizia di Abramo, con cui l’autrice apre la sua rassegna, non sembra, come molte concubine della leggenda biblica, così «irregolare», perché in qualche modo era una figura prevista, ancorché dolorosamente. Se, come sostiene l’autrice, Agar è diventata, millenni dopo, il simbolo «dei diseredati e perseguitati, della donna sfruttata economicamente e sessualmente, privata di ogni diritto, scacciata e lasciata senza mezzi di sussistenza», cosa dire del dolore e della gelosia di Sara che per tredici anni aveva sopportato la presenza di Agar, e visto crescere, accanto al figlio di lei, Ismaele, il proprio figlio Isacco, concepito a novant’anni per miracolosa interruzione della sua sterilità? Infatti il problema, se si potesse dire, sta nel manico. Fatte le debite proporzioni, Abramo, potendo, aveva la concubina per sacrosante necessità di discendenza, oltre che per disponibilità sessuale, così come gli ottocenteschi padroni delle ferriere o i moderni manager possono avere, quelli che lo vogliono e vi riescano, un’amante, una seconda famiglia, una storia «irregolare», che è tale solo rispetto all’unico parametro considerato, quello della firma su un contratto matrimoniale, e non ovviamente sotto il profilo umano, morale, caratteriale eccetera.
Il cammino dell’uomo è lento, e ancora ieri, nelle famiglie borghesi del 1880 o del 1920, con più ipocrisia di oggi, il padrone di casa poteva sentenziare dignitosamente che la donna è la regina della casa, così come si dice che la cipolla è la regina della cucina, e poi usciva e andava in casino, o dall’amante appunto. La figura dell’altra, tuttavia, è frustrantemente tenace, ma con quali e quante sfumature e rivalse. Nell’Inghilterra del Seicento, un’amante reale, nobile o non nobile che fosse, non poteva scrollarsi di dosso l’etichetta di «puttana del re». La contessa di Dorchester, che era stata amante di Giacomo II, incontrando per caso la duchessa di Portsmouth e la contessa di Orkney, amanti rispettivamente di Carlo II e di Guglielmo III, così esordì alludendo sinteticamente al loro ruolo: «Noi puttane...». In Francia fu Luigi XIV a ufficializzare il titolo di maîtresse en titre, che da allora, da Louise de la Vallière e da Madame di Montespan in avanti, durò per generazioni di «altre». Però solo il bisnipote di Luigi XIV, l’inetto Luigi XV, infischiandosene degli avvertimenti del bisnonno, consentì che la sua maîtresse en titre, Madame de Pompadour, diventasse una potenza. Si sa, lo spirito annulla le differenze, ed è così che si riequilibrano le cose. Se l’episodio le fosse stato noto, l’autrice avrebbe potuto riportare anche questo.
Quasi quarant’anni fa a Milano, Buzzati aveva una sua giovane musa che amava riamato. Essa ebbe poi ad andare al ricevimento in casa dei proprietari di un grande giornale e, rispondendo con provocatoria intelligenza alle critiche che in quella sede erano state sollevate, si presentò dicendo: «Sono la troia di Buzzati». Ma la Abbott, nel suo inventario, non tralascia le più varie tipologie di «altre», dalle donne dei preti alle dame del jet set, come Pamela Digby Churchill Hayward Harriman, o semplicemente Pam.

Nella sua ricerca di sicurezza economica, Pam «aveva elaborato delle strategie originali, italianizzandosi con Gianni Agnelli, francesizzandosi con Elie de Rothschield, americanizzandosi con Leland Hayward, democratizzandosi con Averell Harriman», e morì da par suo, ultraottantenne, dopo un malore avuto mentre nuotava nella piscina del Ritz a Parigi, nel 1997.

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