Roberto Saviano? Fra giovane promessa e venerato maestro

Saviano ha paragonato Fini a Giacomo Matteotti. Mi pare che questo modesto scrittore, icona del Giusto, abbia un po’ perso la misura. Temo che gli toccherà il destino di tanti altri: incoronato emblema del popolo perbene, naturalmente antiberlusconiano, verrà usato e poi gettato - in vista di una nuova stagione politica - da chi adesso lo osanna come una Madonna Pellegrina e i pecoroni rossi, ubbidienti al richiamo del pifferaio, tutti in libreria. A comprare Gomorra per leggere perle del tipo «prima di tirare il grilletto con tutta la forza dei due indici che si spingevano a vicenda»; «l’attrazione turistica per turisti»; «fissare una guerra di camorra nelle pupille» etc. Sarà ora che questa incarnazione del Bene scenda dal trono. Il bluff non può durare troppo, e questo filosofo da ipermercato ha avuto un credito inversamente proporzionale alla qualità della scrittura, e alle idee che propina. La lezione di banalità è finita, professor Saviano.
Castiglione della Pescaia (Grosseto)

La primavera la induce a sognare, caro Danubi: la lezione di Saviano è finita? Giù il sipario sul guru mal rasato ed emaciato ad arte? Ma quando mai! I «sinceri democratici» non se ne libereranno tanto in fretta e così facilmente. Vede, caro Danubi, l’intellettuale di sinistra è soggetto a una procedura esistenziale che non concede scampi o scappatoie, procedura ben rappresentata dal paradigma di Berselli-Arbasino. Prima tappa, «giovane promessa». Terza e ultima tappa «venerato maestro». In mezzo, la lunga stagione di... qui mi s’inceppa la penna perché dovrei scrivere una sboccataggine e non mi va. La lunga stagione del «solito...» beh, sì, insomma, ci metta lei l’omesso ma evidente termine fecale. Così è e nessuno può farci niente. Saviano lo sa: essendo uomo di cultura figuriamoci se ignora il paradigma Arbasino-Bertelli. Quand’era ancora «giovane promessa», chissà quante volte ne ha riso. Però c’è poco da ridere perché ogni «giovane promessa» della compagnia di giro progressista passa, più prima che poi, al secondo stadio e Saviano non fa eccezione. D’altronde, chi delle sue competenze - nel caso nostro il gomorrismo - fa il trampolino per librarsi nell’universo tuttologico - nel nostro caso antiberlusconiano - ci mette niente a diventare, anche agli occhi dei suoi molti ammiratori, il solito eccetera eccetera. E questo per la pecca che lei, caro Danubi, insieme a tutti coloro che hanno anche una sola volta letto o visto Roberto Saviano, ravvisano: la banalità, la mancanza di idee o concetti originali, la ripetizione di formule ovvie, di luoghi comuni triti e ritriti senza un guizzo, senza un’impennata che non sia quella di mettere la mozzarella di bufala al primo posto delle cose per cui vale la pena vivere. Il monocordismo intellettuale e verbale funziona per un po’: detta la prima volta, una bischerata può passare, al vaglio del «sincero democratico», per idea profonda. Ma già alla seconda anche il più pirla dei progressisti sbuffa. Figuriamoci alla terza, quarta e quinta volta. Però anche così, anche se sbuffa, non gli volge le spalle perché cova sempre nell’animo progressista il trinariciutismo: se il partito o la Repubblica dicono che Saviano è il massimo, Saviano resta il massimo (massimissimo quando s’accoppia con Fabio Fazio, altro massimo a denominazione di origine controllata) nonostante banalità e bischerate a scialare. E tale resterà per tutta la durata della sua stagione da «solito eccetera eccetera». I «sinceri democratici», caro Danubi, son fatti così: hanno quei modi da rigattiere che li porta a buttar via nulla, nemmeno i «soliti eccetera eccetera», nemmeno i vecchi rottami, nemmeno i rincitrulliti. Nemmeno Asor Rosa, per dire. O uno come Saviano che accostandolo a Gianfranco Fini riduce a meschino quaquaraqua un gigante della mitologia progressista qual è Giacomo Matteotti.

La forza della sinistra è tutta lì, nello stomaco di ferro.
Paolo Granzotto

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