Il rom assassino respinto dalle «sue» comunità

«La vicenda processuale di Marco Ahmetovich è l’esempio di come in Italia la giustizia venga fatta sui giornali e la magistratura si adegui. Il compito dello Stato dovrebbe essere quello di punire i colpevoli e recuperarli in seno alla società civile. Tutto il resto è razzismo o fascismo», così parlavano i (sedicenti) difensori della causa rom sui blog molto vicini all’Opera Nomadi, in quei giorni di fuoco di quasi un anno e mezzo fa, quando sulla strada di Appignano del Tronto (Ascoli Piceno), un rom 21enne ubriaco falciò con il suo furgone un gruppo di ragazzi in scooter tutti tra i 16 e i 18 anni: nell’incidente morirono in quattro. Qualche mese più tardi - intanto il responsabile si trovava in carcere dopo la condanna di primo grado per omicidio colposo plurimo - i frequentatori del sito rilanciavano il dibattito, scandalizzati per «l’occhio del ciclone» sollevato: «Hanno scatenato la rabbia razzista dei politici, che naturalmente si guardano bene dal chiedere le stesse misure restrittive per i responsabili degli 8mila morti che sono stati ammazzati nel 2008 sulle strade italiane. In Italia nessuna persona condannata per incidente stradale è oggi in carcere». Intanto sui giornali montava il coro delle associazioni, pronte a denunciare il trattamento discriminatorio subito dall’imputato «solo perché rom».
Posizioni estreme, certo, ma ormai non è questo a stupire. Il paradosso è un altro. Passata la tempesta, spente le telecamere, nessuna di quelle voci «controcorrente» che in tv e sulle prime pagine dei quotidiani straparlava di giustizia italiana sommaria e in balìa della destra - ma non fu pure Veltroni a chiudere le porte di Roma al trasferimento ai domiciliari? -, oggi muove un dito per liberare Marco Ahmetovich. Sì, perché sarebbe bastato che una soltanto delle circa trenta strutture interpellate (30, praticamente tutte le principali realtà che operano nell’ambito carcerario) si fosse dichiarata disponibile a ospitare nella propria comunità il giovane rom, e lui avrebbe potuto scontare la pena lontano dal carcere, in attesa dell’ultima parola dei giudici sulla strage di Appignano.
Le carte lo permettono. Una perizia della Procura delle Repubblica di Ascoli Piceno (quindi dell’accusa, non della difesa) ha certificato che il paziente «fa uso di bere patologico» che ha portato «ad un episodio acuto di intossicazione da alcol». Un trattamento terapeutico rientrerebbe nel percorso di rieducazione del condannato, che una volta in libertà potrebbe tornare al volante. Un trattamento, peraltro, a cui sono regolarmente ammessi spacciatori e stupratori, clandestini compresi. Invece niente, al legale difensore Felice Franchi sono arrivati finora solo rifiuti e scuse. «Dovrà pagare per quello che è successo - precisa l’avvocato -, ma merita comunque gli stessi diritti concessi ad altri condannati». Anche e soprattutto per chi è abituato a lottare contro la «società anti-zingari», insomma, Ahmetovich resta un personaggio scomodo. Un portatore sano di cattiva pubblicità. Da scansare, se possibile. Molto meglio concentrarsi sulle «violenze perpetrate dalla polizia italiana nei campi rom», cavalcare l’onda della visibilità regalata da un rapporto del Consiglio d’Europa, peccato fosse pieno di sviste ed errori madornali.
«Ahmetovich chi?». Nei blog i moderatori non si stracciano più le vesti in nome della «giustizia-oltre-le differenze-di-etnia».

Dopo la sentenza d’appello che ha confermato i sei anni e sei mesi di reclusione, il rom 21enne è sempre in una cella della zona «filtro» nel penitenziario di Marino del Tronto. Appeso al ricorso in Cassazione. Ignorato dai «paladini dei nomadi» a orologeria.

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