Così il clan egiziano assegnava gli alloggi nel residence del Comune

Il clan egiziano decide chi può rimanere negli alloggi pagati dal Comune. La denuncia di un'inquilina di via Tineo: "Ho sempre avuto paura che Fathy potesse farmi togliere l’assistenza alloggiativa perché conosce chi assegna le case"

Così il clan egiziano assegnava gli alloggi nel residence del Comune

Ma perché la famiglia Torkey sembra essere al di sopra della legge? Una delle possibili risposte a questa domanda è contenuta in una denuncia.

Ricordate la ragazza picchiata dal figlio di Fathy, Mohammed, di cui vi abbiamo parlato nelle puntate precedenti della nostra inchiesta? Siamo andati a trovarla a San Basilio nel residence in cui è stata trasferita dopo l’aggressione in cui furono coinvolti anche quattro agenti della Polizia Locale intervenuti per difenderla. Vive qui assieme alle due figlie in un appartamento di pochi metri quadri. Quando bussiamo alla sua porta e le facciamo il nome di Mohammed Torkey il volto si scurisce. Abbassa gli occhi, si accende una sigaretta. "Con quella famiglia ho chiuso", ci avverte.

È evidentemente spaventata dal fatto che l’incubo vissuto sei mesi prima possa tornare. "In quel residence ci sono sempre casini, lo sanno tutti", si limita a dirci prima di iniziare a ripetere che "non sa nulla e anche se sapesse non parlerebbe per nessuna ragione". Nel residence di via Tineo la donna era assegnataria di un immobile in cui viveva proprio con Mohammed e le loro bambine. Una cosa però la ammette. "L’alloggio l’ho preso grazie a Mohammed, questo è vero – ci confessa - perché lui si occupava della sicurezza".

Un servizio, quello della security, retribuito dalla proprietà dello stabile con i fondi messi a disposizione dal Comune di Roma. Nella denuncia resa alla Polizia Locale lo descrive come una persona "estremamente violenta e pericolosa". "Faceva uso di sostanze stupefacenti" e "mi picchiava ogni giorno utilizzando qualsiasi cosa che gli capitava per le mani, ad esempio coltelli o altri oggetti acuminati", testimonia la donna ai vigili. Nel resoconto racconta di essere stata chiusa nel gabbiotto della portineria e "ferita con un coltello" o di quando Mohammed ha tentato di scagliarla fuori dalla finestra "per futili motivi, sotto l’effetto del crack".

In nessun caso, racconta agli agenti del comando di via Macedonia, ha deciso di sporgere denuncia perché il padre di Mohammed, Fathy, che la donna definisce "responsabile della sicurezza nel Caat", era intervenuto a garantire che tutto si sarebbe sistemato. Mohammed entra ed esce dal carcere di Rebibbia. Una volta libero si presenta di nuovo a casa della donna nonostante i trascorsi turbolenti e il fatto che da tempo frequentasse un’altra persona. Ovviamente lei è contraria.

E così ad intervenire, ancora una volta, sarebbe stato Fathy, il padre di Mohammed. Il capo famiglia le assicura che "avrebbe sistemato tutto". Lei alla fine è costretta ad accettare, perché, spiega agli agenti ha "sempre avuto paura che Fathy potesse farmi togliere l’assistenza alloggiativa se non avessi accettato la convivenza". Nel verbale, qualche riga più sotto, la donna aggredita rivela di aver "paura" anche delle reazioni di Mohammed, e del fatto che "possa farmi togliere l’assegnazione della casa".

Ma perché la famiglia Torkey dovrebbe avrebbe la facoltà di decidere chi può e chi non può rimanere negli alloggi del Comune? La versione della vittima è che Fathy ha il potere di revocare l’assistenza alloggiativa. È negli uffici di piazza Giovanni da Verrazzano, quindi, sede del dipartimento Politiche Abitative di Roma Capitale, che andiamo a chiedere spiegazioni.

Fuori dalla palazzina, incontriamo il direttore apicale del Dipartimento Valeria Minniti ed il direttore delle Politiche Abitative Stefano Donati, l'ex comandante dei vigili di Bari, imputato per abuso d'ufficio e falso ideologico in atto pubblico, che ha preso il posto di Aldo Barletta, il dirigente che si oppose alle logiche di Mafia Capitale e che la sindaca Virginia Raggi ha trasferito alla direzione del Centro Carni.

La prima ci liquida con un no comment e ci intima di allontanarci immediatamente dall’ingresso del palazzo. Il secondo evade sorridendo i nostri quesiti. Dopo i no comment e le porte sbattute in faccia, quindi, resta una domanda: perché in una città con oltre 12mila persone senza un tetto sopra la testa l’assistenza alloggiativa viene assicurata a chi non ne ha diritto? Sì, perché qui non si parla di case popolari ma di appartamenti il cui costo viene sostenuto dalla collettività per rispondere ad una vera e propria emergenza sociale. Un onere che, fra l'altro, fa di Roma la città italiana con la più alta addizionale comunale Irpef.

E perché nonostante le violenze, le intimidazioni e il clima di terrore che si respira nel residence e che abbiamo documentato con testimonianze e documenti, i fondi stanziati dal Comune sono continuati a finire nelle casse delle società gestite o collegate alla famiglia Torkey? Nessuno ci ha ancora risposto.

La nostra incursione, però, forse è servita a qualcosa visto che, da quanto ci risulta, nei giorni scorsi sarebbero partiti i primi accertamenti. Non ci resta che attenderne l’esito, nella speranza che venga ripristinata al più presto la legalità.

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