Il romanzo criminale non ha mai lieto fine In cella l’ultimo dei boss

RomaLa fama e l’infamia non vanno sempre a braccetto. Lo sa bene Enrico Nicoletti, cassiere della banda della Magliana, straordinariamente ricco negli anni d’oro del sodalizio criminale e sopravvissuto al declino della gang, agli omicidi, alle vendette, ai pentimenti solo per ritrovarsi, oggi, a 76 anni, di nuovo in una cella nel carcere romano di Rebibbia.
«Sono vecchio, non voglio morire in galera», ha detto agli agenti che lo scortavano in clinica per accertamenti e poi in prigione, dove deve finire di scontare sei anni e sei mesi per usura, rapine ed estorsioni accumulate in varie condanne. Non ha niente dell’eroe o dell’antieroe, il cassiere Nicoletti, divenuto suo malgrado celebre come «il Secco» nella fortunata coda letteraria, cinematografica e televisiva di «Romanzo Criminale», dedicata alla saga della Banda. Niente di epico, soprattutto, ha il suo pingue alter ego, nato dalla penna di Giancarlo De Cataldo, interpretato da Stefano Fresi nel film e da Vincenzo Tanassi in tv. Sono altri i veri «boss», sono il «Freddo», il «Libanese», il «Dandi» a conquistare, grazie al grande schermo, una fama mainstream da corsari, da cow-boy più che da criminali. Quando erano materia da cronaca nera, il successo era inferiore. A settembre dell’80 la morte del «Libanese», al secolo Franco Giuseppucci, vero soprannome «Er negro», ammazzato a colpi di pistola a Trastevere, finisce a pagina 7 della cronaca locale del Messaggero.
Il mito è arrivato dopo, quando la cronaca si è fatta fiction. E ha lasciato, comunque, al «Secco» solo un ruolo da scaltro usuraio - un cravattaro, per dirla alla romana - che ha messo il suo know-how al servizio di un’organizzazione criminale per riciclare e moltiplicare i soldi della «Banda». E, naturalmente, i suoi.
Nicoletti, il «vecchio» che non vuol morire in carcere, sarà anche solo un comprimario, nella saga. Ma nella realtà ha contribuito non poco all’aura leggendaria che ammantava, e ammanta, la Banda della Magliana. Soprattutto a lui si deve quell’immagine di sfarzo pacchiano, quella capacità di coniugare il malaffare, tradizionalmente clandestino, con l’ostentazione, che nell’immaginario collettivo è più che mai legata alla gang romana. Un aspetto che nel romanzo e nel film sembra prerogativa dei veri protagonisti della Banda, il «Libanese» e soprattutto il «Dandi», gente che aveva più familiarità con la pistola che con la calcolatrice.
Ma a muovere i soldi, a spenderli con pochi ritegni, era proprio Nicoletti, che andò ad abitare a Villa Osio, residenza anni ’30 con parco di 25mila metri quadri lungo le Mura Aureliane, tra piscine, rubinetti d’oro e marmi. Comprò anche gli storici studios cinematografici De Paolis, sulla Tiburtina, e il terreno su cui doveva sorgere l’università di Tor Vergata. Poi arrivarono i guai, e il declino. Un sequestro dopo l’altro, le fiamme gialle tra ’94 e ’95 confiscarono beni per oltre 1,1 miliardi di euro a Nicoletti. Se il crimine non paga, lui in garage aveva 3 Rolls Royce, una Lamborghini, una dozzina di Mercedes, due Porsche e tre Ferrari.
Non male per un comprimario che somigliava a Paperone. La cui importanza, strumentale nella banda-fiction, sembra riottenere “giustizia” proprio dalla cronaca nera e vera. «Affascinante», «convincente», «spietato», «abile e spregiudicato». Così racconta il «Secco» il pentito Maurizio Abbatino, il «Freddo», in un’udienza del processo, nel 1994. Vanta amicizie altolocate, entrature politiche. E sopravvive a molti dei suoi compari, finiti sotto terra (Dandi-De Pedis e Libanese-Giuseppucci), pentiti (Freddo-Abbatino e Ricotta-Mancini) o in manicomio criminale (Bufalo-Colafigli) ben prima che libri e film ne narrassero le gesta.
La Banda seminava cadaveri, lui raccoglieva soldi e li moltiplicava.

Ma la sua parabola è discendente, e arresto dopo arresto (prima di ieri era finito in cella a luglio scorso) il finale del suo «romanzo criminale» è meno romantico, è infame: un vecchio che ha paura di morire in cella. Il crimine, almeno per lui, non paga più.

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