RONCONI Così è nato «Il silenzio dei comunisti»

Lo spettacolo firmato dal regista arriva all’Hangar di Sesto

Igor Principe

Su certi silenzi della storia gli addetti ai lavori interrogano da decenni, e le risposte non sono ancora del tutto chiare. Parlarne in mezz'ora può dunque apparire inutile, prima ancora che presuntuoso. Di fronte però non c'è uno storico, ma Luca Ronconi. Che di quei silenzi ha cognizione di causa, poiché è il tema di una delle sue regie più apprezzate degli ultimi tempi: Il silenzio dei comunisti.
Dopo il trionfale debutto, lo scorso febbraio, alle Olimpiadi della Cultura di Torino lo spettacolo arriva ora sulla piazza milanese; non nella consuetudine del Piccolo Teatro, ma in una cornice del tutto nuova per la teatralità locale. Da stasera al 19 novembre, infatti, sarà in scena nell'Hangar Paolo Fondrini, area ex Marelli, a Sesto San Giovanni.
«Mi è parso opportuno portare questo testo laddove certe memorie sono ancora presenti - dice Ronconi -, come è accaduto anche al debutto, quando siamo andati in scena alle ex Fonderie Limone di Moncalieri. Ma c'è anche una ragione tecnica: la platea è mobile e richiede spazi più ampi di quelli di una sala normale».
Quali sono state le principali difficoltà di messa in scena?
«Diversamente da Lo Specchio del Diavolo e da Infinities, espressamente commissionati ai loro autori, il Silenzio è un testo a sé, scritto da Vittorio Foa come un dialogo epistolare con Miriam Mafai e Alfredo Reichlin. Questa sua natura ha escluso le difficoltà, che esistono quando ti prefiggi un risultato preciso da raggiungere e non quando, come in questa occasione, ti affidi ai materiali osservando il loro modo naturale di diventare un testo teatrale. Alla fine puoi solo parlare di fallimento o di riuscita».
Qualcosa mi dice che non è stato un fallimento...
«Lo dice anche a me, ma non vorrei parlare sterilmente di successo. Alla base della riuscita c'è un riscontro da parte del pubblico inaspettatamente caldo. Credo che la ragione sia nella presenza di una matrice drammaturgia ben visibile. Insomma, è un testo particolarmente adatto alla scena».
Anche la materia di cui tratta, però, ha un suo peso.
«Certamente. Non si può negare che nella storia recente il Pci sia stato uno dei cardini della vita politica e culturale italiana. La cosa che mi interessava più di tutte era parlare sia a chi di quella temperie aveva una memoria diretta sia ai giovani, che ne sono un po' i figli naturali».
Perché gli anziani Foa, Mafai e Reichlin sul palco hanno i volti giovani di Luigi Lo Cascio, Maria Paiato e Fausto Russo Alesi?
«Perché non si tratta di una biografia storica, ma di cercare un modo di parlare anche a chi non ha conosciuto quei fatti se non di striscio».
La ricerca di un nesso tra libertà e uguaglianza è al centro della vita dei protagonisti, quindi del testo. La storia ne ha certificato il fallimento, almeno nell'esperienza del socialismo reale. È una ricerca vana?
«Non cerco risposte a questa domanda. Mi interessa invece far riflettere sulla necessità di un nuovo equilibrio tra quelle due forze.

E infatti, mentre i testi di Foa e di Mafai sono rimasti gli stessi dal libro alla scena, quello di Reichlin è stato modificato per arrivare ad aprire una finestra sul passato e sull'avvenire. Non volevo mettere in scena un'analisi storica, un semplice guardarsi indietro; volevo soprattutto far emergere la necessità di progettare un futuro».

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