Se c'è un ambiente in cui l'eleganza è sconosciuta, è quello intellettuale, dove se non hai la forfora sulla giacca non sei credibile. Poi, grazie a Dio e a certi aplomb, ci sono le eccezioni. Mario Andreose, ad esempio. E non è solo una questione di abiti. Anche se, non a caso, il miglior complimento che si può fare a un editore è di essere un sarto dei libri.
Di per sé, Andreose non è un editore, pur essendo tra i fondatori della Nave di Teseo. Diciamo che è un uomo di editoria. Un uomo che vive da sessant'anni in mezzo ai libri, agli scrittori, ai critici, e agli editori. Ne conosce miserie e grandezze, ma essendo homme du monde preferisce ricordare le seconde e stendere una vezzosa pochette sulle prime. Si chiama classe.
Classe innata, vasta cultura, ottimo nella conversazione ma ancora di più nel sapere stare in silenzio, in equilibrio perfetto fra i libri letti e quelli scritti (per ogni libro pubblicato occorre averne letti - quanti? Facciamo mille...), e soprattutto eccellenti frequentazioni. Harry's Bar e irish tweed, Buchmesse e Quinta Strada, Biennali e Roland Garros. Se fosse un giocatore di tennis (chissà perché lo sport preferito da chi lavora nell'editoria), sarebbe Novak Djokovic. Mitteleuropa, plurilinguismo, garbo e intelligenza. Anche fuori dal campo.
Dentro, in quello dei libri, Andreose più che un campione è un eccellente coach. Veneziano di nascita (con lo stile di Aldo impresso nel carattere) e milanese per lavoro, Andreose ha iniziato come correttore di bozze al Saggiatore di Alberto Mondadori nel 1958, e poi: aiuto redattore, redattore, redattore capo e direttore editoriale... Dopo c'è il passaggio alla casa madre Arnoldo Mondadori, dove si occupa di libri per ragazzi e delle coedizioni internazionali (era l'epoca d'oro in cui dalle Officine Grafiche di Verona ogni settimana uscivano un milione di copie di Topolino...); quindi negli anni '80 l'approdo al gruppo Fabbri; nel 1982 la direzione editoriale di Bompiani (dove avvia la collana «Classici» e segue le opere di Umberto Eco) e, oggi, la presidenza della Nave di Teseo. Se l'editoria fosse un oceano, Andreose è inaffondabile.
Il libro di bordo sono le sue memorie. Qualche anno fa diede alle stampe Uomini e libri (Bompiani, 2015), ricordi di una vita passata a curare le parole altrui. Oggi ecco Voglia di libri (La nave di Teseo, 2020), una traversata nei propri ricordi, tra agenti, manager e scrittori. Tra i tanti flashback, segnaliamo:
FALCE E SILERCHIE Giacomo Debenedetti (1901-67), peso massimo della critica in Italia nel Novecento, nel '58 partecipò alla fondazione della casa editrice Il Saggiatore insieme con Alberto Mondadori, figlio di Arnoldo, e divenne direttore della collana «Biblioteca delle Silerchie». Una delle più eleganti della nostra editoria (ma questo lo dico io). Andreose, invece, dice che Debenedetti «aveva in una tasca la tessera del Partito comunista e nell'altra un portasigarette a orologeria per limitarne l'uso». Comunisti moderati.
I LIBRI SONO UNA MERCE Erich Linder (1924-83), italo-austriaco nato per sbaglio a Leopoli, è stato fra gli agenti letterari più importanti e temuti del mondo. Spostava scrittori e editor con la stessa facilità con cui cambiava posto ai libri sugli scaffali. Sapeva che i libri prima sono una merce, poi un'opera. «Al di là delle transazioni, per le quali imponeva le sue ferree ma non illogiche condizioni, il suo conversare concedeva variazioni tra il giudizio e il pettegolezzo letterario, la logica industriale e il mercato».
IMPEGNO CONTROVOGLIA Alberto Moravia (1907-90). Quando Andreose cominciò a lavorare con lui, in Bompiani gli assicurarono che non avrebbe avuto granché di cui occuparsi: tutti dicevano che il vecchio scrittore - il quale avrebbe preferito fare il pittore, per inciso - era in declino. Bene. In otto anni Moravia produsse una decina di libri tra romanzi, raccolte di racconti, opere teatrali, saggi, scritti di viaggio, l'autobiografia e diede avvio ai primi volumi della sua opera omnia... I sogni del pigro.
VACCHE GRASSE Tra le esperienze più entusiasmanti e divertenti di Andreose (che così fu costretto a girare per i più importanti musei del mondo a caccia di accordi...) ci fu la pubblicazione dei cataloghi delle mostre di Palazzo Grassi a Venezia (di proprietà, come la Fabbri, di casa Agnelli). Quando nel 2005 la Fiat vendette il palazzo, Andreose fece di tutto per convincere Umberto Agnelli a tenersi il gioiello di famiglia. Ma niente. «E pensare che l'intera gestione annua di Palazzo Grassi valeva un po' meno dello stipendio di Bobo Vieri, come ebbe a riferirmi una contabile della ditta». Evidentemente, nota l'autore, non era quello il problema.
OCCHIO ALLE PIATTOLE Gianni Brera era campione di scrittura ma anche di provocazioni. Quando stava per pubblicare il romanzo Il mio vescovo e le animalesse, era il 1984, andò a trovarlo la neo ufficio stampa Bompiani, una giovane Elisabetta Sgarbi, «soave e intimidita». Mentre stava per sedersi sulla sedia del tinello, «con un bianco e leggero vestito estivo» - ricorda Andreose - Brera, sigaro e battuta pronta, la fulminò: «Attenta alle piattole!».
L'IMPRONTA DELL'EDITORE L'impressione che si ricava sfogliando il catalogo-mémoir di Andreose è che il migliore di tutti in campo editoriale (e noi crediamo sia vero) fosse Luciano Foà (1905-2005), uno che: esordì vendendo a Mondadori Via col vento dopo numerosi rifiuti; fu mediatore e regista «discreto se non occulto» di quell'accolita di dirigenti e consulenti di cui si circondò Giulio Einaudi; e poi - «editore e gentiluomo lungimirante, alieno dagli steccati ideologici e dalle miopi rivalità professionali» - fu la vera anima di casa Adelphi. Altro che Calasso.
IL SEGRETO DELLA ROSA Infiniti gli aneddoti di Andreose sulla figura e l'opera di Umberto Eco, di cui fu amicissimo e quasi coetaneo (lo scrittore era del '32, il Nostro del '34). Fra i tanti, quello legato al motivo per cui a un certo punto il Professore decise di darsi al romanzo e scrivere Il nome della rosa. È vero: Eco se la cavò sempre con la boutade «Avevo voglia di avvelenare un monaco». In realtà, ha scoperto Andreose, in un vecchio numero dell'Almanacco Bompiani dal titolo Il ritorno dell'intreccio (siamo nel 1971-72), Eco fa un'analisi di come l'industria editoriale e quella della comunicazione di massa, quindi libri, radio e televisione, sembrano stregati dall'intreccio storico. Insomma, mentre gli altri predicano la «morte del romanzo», lo scrittore capisce che il successo della narrativa popolare, cioè dei romanzi e degli sceneggiati, passa dal vecchio caro intreccio ottocentesco: «un personaggio con il quale il lettore può identificarsi, peripezie e riconoscimenti, pietà e terrore, un elemento che sciolga il nodo inestricabile dei fatti, la catarsi finale». In quel momento stava già iniziando a scrivere la storia di una serie di delitti dentro un'abbazia...
REFUSI Per inciso. Nelle memorie di Andreose ci sono anche alcune sviste. È vero che l'acquisizione del catalogo Rusconi da parte di Bompiani fu una manna (a dimostrazione che l'editoria di destra produce mediamente ottimi libri).
Ma - a proposito del clamoroso successo di Tolkien - definire i campi Hobbit degli anni '70 come ritrovi di neofascisti esoterici... è come se io parlassi delle feste dell'Unità come raduni di stalinisti antropofagi. Pregasi correggere prossima edizione.
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