Rudolf Nureyev tra volteggi e follie sul palcoscenico della guerra fredda

Rudolf Nureyev tra volteggi e follie sul palcoscenico della guerra fredda

La tomba di Rudolf Nureyev si trova nel cimitero russo di Sainte-Geneviève-des-Bois, a una ventina di chilometri da Parigi. Un baule da viaggio coperto da un tappeto di bronzo decorato a mosaico, opera dello scultore, scenografo e costumista italiano Ezio Frigerio, fa da lapide. Realistico per la morbidezza delle pieghe, delle frange e del disegno in cui prevalgono il corallo e il turchese, i colori nazionali della Baschiria, la terra di Nureyev, il monumento rimanda al tavolo basso del salone della sua casa parigina del Quai Voltaire, in realtà una cassapanca coperta con uno scampolo di stoffe antiche in cui venivano raccolti i kilim da lui collezionati. «La bara» era il soprannome che Nureyev le aveva dato e la duplice accezione è la perfetta rappresentazione di cosa egli sia stato lungo tutto l'arco di una esistenza non lunga, cinquantacinque anni, ma intensissima, una sorta di moto perpetuo, un danzare vorticoso nella sua prima parte con la vita, un flirtare nell'ultimo decennio con la morte, guardandola in faccia e disprezzandola sino alla fine. Con l'azzurra cupola a bulbo della sua cappella, le betulle con il tronco argentato e un'atmosfera vagamente poetica, il cimitero di Sainte-Genèvieve-des-Bois è un piccolo pezzo di Russia, e si può dire che la vita di Nureyev sia finita dove era cominciata, l'esser nato su un vagone ferroviario della transiberiana; un'infanzia povera a Urfa; l'educazione alla scuola del Kirov a Leningrado; la fuga in Occidente, poco più che ventenne, in quel 1961 in cui la guerra fredda era una realtà e l'Unione Sovietica una potenza i cui piedi d'argilla nessuno aveva ancora intuito, lanciata com'era nella competizione spaziale con gli Stati Uniti e fiera di un internazionalismo proletario e rivoluzionario che dall'Africa all'Asia sembrava inarrestabile.

Anche per questo la scelta occidentale di Nureyev sollevò allora tanto scalpore: non era solo o tanto il primo artista a fuggire dalla Russia dopo la Seconda guerra mondiale, né l'essere il prodotto più puro di una tradizione classica, quella del balletto, che l'ortodossia comunista aveva ridisegnato da par suo facendone una scuola di disciplina nazionale e insieme una sorta di manifesto ideologico del regime rivoluzionario che aveva preso il posto dell'autocrazia czarista. Nello scontro che opponeva l'Europa occidentale al blocco comunista orientale, e che di lì a poco si sarebbe concretizzato con la costruzione del Muro di Berlino, c'era chi prestava al pauperismo moscovita un alone di moralistica alternativa alle volgarità del liberismo economico proprio delle società capitalistiche, una sorta di resistenza etica allo strapotere del denaro, alla commercializzazione sfrenata del talento. Chiusa nel calore delle sue case borghesi, la sinistra progressista dell'epoca, in specie quella francese, si crogiolava nel giudicare «un traditore» quel giovane miracolo della danza che invece di ringraziare la madre patria per avergli dato un mestiere, preferiva le lusinghe del consumo e del successo... In realtà, come ha spiegato Mikhail Baryshnikov, che un decennio dopo avrebbe fatto la stessa scelta, «Nureyev in Russia sarebbe morto... lo avrebbero ucciso o si sarebbe ucciso. E per evitare questo non c'era che un modo». Ciò che quell'Occidente cloroformizzato dai premi Stalin della pace e dai «compagni di strada» delle mille campagne di disinformazione ignorava, o fingeva di non sapere, era proprio il controllo ferreo di un regime che spezzava, e non solo metaforicamente, la schiena a chi, anche soltanto in apparenza, si mostrava recalcitrante al suo dominio. Nel campo specifico, un allontanamento dal corpo di ballo, un trasferimento nelle provincie più remote, un divieto a danzare di nuovo, era, semplicemente, seppellire vivo il reprobo...

Il bello è che Nureyev non pianificò la sua fuga. La trionfale tournée del Kirov a Parigi, dove la sua stella esplose, sarebbe dovuta proseguire a Londra, sede del prestigioso Royal Ballet. Gli zelanti custodi dell'ortodossia sovietica volevano però dare una lezione a quell'insolente e indisciplinato ragazzino, che pretendeva di andarsene da solo e di notte in giro per Parigi, fraternizzando con la controrivoluzione. Così, all'aeroporto, il giorno della partenza per il capoluogo britannico, gli dissero che non si sarebbe imbarcato con gli altri membri della compagnia. Per lui c'era un volo in partenza per Mosca... Fu allora, e fu così, che Nureyev scelse la sua libertà.

Le uscite, pressoché in contemporanea in Italia, del film Nureyev - Il corvo bianco, per la regia di Ralph Fiennes, e della biografia di Julie Kavanagh, Nureyev. La vita (La nave di Teseo, pagg. 973, euro 22, traduzione di Viviana Carpifava) riaccendono i riflettori su quello che è stato non solo un mostro sacro della danza, ma anche un fenomeno di moda e di costume. Se Fiennes si concentra sull'apprendistato a Leningrado e il ruolo fondamentale esercitato da Alexsandr Pukin, il direttore dell'Accademia Vaganova che ne intuì e valorizzò lo straordinario talento (è lo stesso Fiennes a interpretarlo sullo schermo), la biografia della Kavanagh è una summa dell'esistenza umana e artistica di Nureyev, una biografia autorizzata, ma né edulcorata né agiografica.

Nureyev fu un «mostro», nel senso etimologico del termine, una sorta di divinità, pur essendo completamente, carnalmente umano, con una dedizione assoluta alla propria arte: era nato per danzare e la sua vita non aveva niente a che vedere con le normali dinamiche umane. Strapparsi dalla Russia, dagli affetti, dalla famiglia, dai maestri, fu per lui un'amputazione tanto dolorosa quanto necessaria. Sopravvisse, ma da allora la solitudine fu la sua vera compagna. Condannato in patria per alto tradimento e a sette anni di carcere, in Russia Nureyev tornerà una prima volta solo alla fine degli anni Ottanta, con un visto straordinario di 36 ore, per assistere alla morte della madre...

Julie Kavanagh è molto brava nel raccontare cosa il suo modo di danzare fu per l'Occidente, la rivoluzione da lui portata, la capacità di imparare e insieme di contaminare. Giustamente sottolinea anche come quella fosse ancora un'epoca in cui «il livello di artisticità era quasi di secondaria importanza rispetto al carisma» e felice è anche il suo rapportare i danzatori ai toreri. Sotto questa angolazione, Nureyev fu nel suo campo ciò che El Cordobés fu nella plaza de toros: «La prima pop star, l'icona, dai capelli lunghi, dello spirito di ribellione e libertà sessuale del decennio». La differenza è che mentre El Cordobés volgarizzò intenzionalmente gli standard classici, Nureyev fuse il sensazionalismo con la compostezza apollinea. Entrambi diedero vita a un fenomeno di follia collettiva in un'epoca, per usare le parole di Tom Wolfe, «di chiome come arnie, frangette vaporose, berretti alla Beatles, facce d'angelo, ciglia pennellate, occhi da decalcomania». Nureyev aggiunse gli scialli e gli stivali, i cappotti lunghi e i turbanti. E un che di orgiastico, nella voracità sessuale, nell'energia animalesca espressa nella danza, «ma ad arte. Io non sono una forza brutale. C'è delicatezza». Anche i suoi ricevimenti rientravano in questo clima, la sala con le pareti rivestite in cuoio di Cordova, i candelieri sorretti da braccia di bronzo di dimensioni naturali, sedie d'ebano, piatti d'argento, un gigantesco trono a capotavola...

Rozzo spesso nei comportamenti, Nureyev compensò la mancanza di educazione formale con un interesse e una passione per cultura, arte, musica, letteratura, tanto ampia quanto affinata e sicura nel gusto. Fra i suoi livres de chevet c'era La carne, la morte e il diavolo di Mario Praz, i romanzi di Flaubert, i saggi letterari di Nabokov, e nella sua adorazione per Byron emergeva lo stesso senso di alienazione, «il sentimento di non appartenere a nessun Paese». Nel poeta inglese e in Listz, ritrovava lo stesso tipo di fama esplosiva, la stessa esistenza nomade, l'identica passione per l'esotismo. È anche questo a spiegare il fastidio per figure come Andy Warhol: «È così brutto» disse semplicemente a chi se ne stupiva...

Figura di spicco anche di quella cultura della notte inaugurata nel 1977 allo Studio 54 di New York, da una Bianca Jagger che fa il suo ingresso su un cavallo bianco, Nureyev non ne condivise però mai la passione per la discomusic, la droga, il cosiddetto sesso softcore. Preferiva «i sulfurei retrobottega dei bar di culto del centro della città», i danteschi quartieri dei mattatoi, le immense distese delle banchine portuali sull'Hudson... Lo scrittore Edmund White ha raccontato come il sesso potesse assumere allora elementi di una sacralità profana, ma per Nureyev, scrive la Kavanagh, «il sesso era semplicemente sesso e solo la danza ammetteva qualche forma di consacrazione: Il palcoscenico è una cattedrale disse una volta». La danza era la grande redentrice e in fondo la sua fede.

Scopertosi sieropositivo nel 1982, il suo ultimo decennio fu eroico e spaventoso. Resistette lavorando sino all'ultimo, riuscì persino a danzare di nuovo a Leningrado, in quel 1989 in cui cadeva il Muro di Berlino: «È un giro del cerchio. Completo» disse a un giornalista.

Un anno dopo la morte, la scrittrice inglese Francine Stock andò a portargli un fiore sulla tomba. Quando uscì dal cimitero sentì un rumore di zoccoli venire da qualche parte: «Un cavallo nero, di razza araba e molto bello, senza sella né briglie, galoppava in mezzo alla strada»...

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