Rugbista paralizzato, l’eutanasia ultima meta

Una vita di seconda classe, non da campione. Il rugby l’ha tradito: gli ha dato un sogno e poi se l’è ripreso. E a 23 anni Daniel James ha preferito morire in una clinica svizzera. Eutanasia, per non vivere più paralizzato in un letto d’ospedale. Non era più la promessa del rugby inglese, quel ragazzino che, nella nazionale under 16, si era fatto notare e poi era finito nel Nuneaton club. Tallonatore: arrivava la palla in mezzo alla mischia e lui la catturava col piede. La tallonava e la spingeva fuori. Ma poi nel marzo del 2007 la sorte l’ha abbandonato. Un incidente durante un allenamento, la paralisi dal petto in giù. Il rugby non c’è più, da quel letto d’ospedale: era tutto, gli ha tolto tutto. Daniel tenta più volte il suicidio. Non ce la fa a vivere così, a non sognare più. Poi lo scorso settembre vede la speranza fra le montagne della Svizzera. C’è un posto, si chiama Dignitas, lì puoi morire. Suicidio assistito.
In Gran Bretagna la storia di Daniel James è diventata un caso. Un’assistente sociale della contea di Worcester, dove vive la famiglia, ha denunciato alla polizia la scelta del giovane campione. È scattata subito un’inchiesta, coinvolti i genitori. I signori James ieri si sono difesi sui quotidiani britannici: «Dan trovava la sua vita insopportabile. Oltre a lasciarsi morire di fame, la Svizzera era la sua unica possibilità». La legge inglese non prevede l’eutanasia: i genitori di Daniel rischiano fino a 14 anni di prigione per aver aiutato il figlio a morire. Per loro però non c’è colpa: «La morte di Dan è stata una grandissima perdita. Ma non c’è dubbio che sia stata anche una liberazione dalla prigione che per lui ormai era diventato il suo corpo».
Daniel non si muoveva quasi più. Il suo corpo non era più quello del campione, delle partite, degli applausi. La nazionale, la squadra universitaria del Loughborough, il Nuneaton. A malapena riusciva a usare le dita. Da diciotto mesi era fermo in un letto, paralizzato. Niente gloria, niente campi. Un solo avversario, che non è riuscito a sconfiggere.
Gli interventi in ospedale non hanno mai cambiato quel giorno del marzo 2007. C’è allenamento, una mischia come tante. Ma da quella mischia Daniel esce con la colonna vertebrale rotta. È la fine della carriera, della vita, del rugby. Quattro giorni prima aveva partecipato a una sfida fra gli studenti dell’Inghilterra e quelli della Francia, a Oxford. Quattro giorni dopo si sente uno di serie B. Dan era «intelligente, forte e determinato» dice la mamma. «Non era preparato a vivere quella che considerava un’esistenza di seconda classe».

Così un giorno di settembre ha baciato le due sorelline, ha detto addio alla sua casa, se n’è andato fra le montagne del continente, per morire. La polizia, i giudici diranno se i genitori di Daniel sono colpevoli. È il ragazzo inglese più giovane ad aver intrapreso questo cammino. Per la mamma «nessuno, ma proprio nessuno dovrebbe giudicarlo».

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