S e qualcuno tornasse oggi in Italia dopo una lunga assenza, metti un astronauta o un latitante, difficilmente riconoscerebbe il Paese. A noi stessi, che siamo sempre rimasti qui, riesce difficile orizzontarci. Il disorientamento è esploso in modo plateale con l'epilogo di Sanremo, nel quale tutti hanno riconosciuto come finalmente trionfino i temi dell'impegno, dei valori, di un più profondo senso della vita. Basta con le canzonette e con l'evasione frivola: in un tripudio di voti e di standing ovation, è l'apoteosi della coscienza civile, con tanta delicatezza riservata ai temi della malattia mentale, della lotta alla mafia, della disoccupazione.
Anche chi coltiva passioni sportive, però, ha notato grandi segnali di crescita. Soltanto una settimana fa abbiamo esultato per lo straordinario successo del rubgy azzurro, accompagnando la vittoria con tutta una bella serie di ragionamenti, per dire che sì, insomma, finalmente l'Italia riesce ad alzare la testa dalle miserie del calcio, dalla volgarità dello sport becero, aprendo i suoi orizzonti verso discipline diverse, e per favore nessuno si azzardi più a chiamarle minori, vedi appunto il rugby, sport duro e leale, dove ci si picchia come fabbri, ma alla fine ci si stringe la mano felici e beati...
Davvero è difficile riconoscerci. Il Festival ci dice che non abbiamo più effimero per la testa, che siamo tanto sensibili al disagio degli sfortunati, che siamo preoccupati per i problemi sociali. Lo sport, a ruota, ci dimostra che non siamo più ottusi, tifosi, monomaniaci, ma proiettati verso una cultura di livello superiore, alimentata da un rinnovato gusto estetico.
Sì, chi sbarcasse in Italia dopo diverso tempo, oggi rischierebbe un mezzo trauma. Potrebbe incorrere in problemi seri a livello psicologico, come la perdita dell'identità e lo smarrimento delle radici. Non sarebbe facile, da curare. Sai la caccia agli strizzacervelli.
Per fortuna, non è però il caso di lanciare l'allarme sociale. Restando allo sport, la tradizione ci insegna che non c'è di che preoccuparsi. Ciclicamente, siamo abituati ad avviare discorsi di emancipazione culturale: avviene puntualmente con le Olimpiadi, quando promettiamo solennemente che non dimenticheremo mai lanciatori del martello, tiratori con l'arco e Maenza. L'Italia è cresciuta, proclamiamo orgogliosi. Ricordiamo le belle parole spese soltanto un anno fa, ai Giochi di Torino, per il pattinaggio sul ghiaccio e il curling? Sembravamo ormai un Paese scandinavo, giuravamo audience galattici per l'eternità. È bastato che tornasse la prima domenica di campionato, e con le pagine sulla cultura olimpica abbiamo pulito i vetri del bagno.
Tiriamolo, allora, questo sospiro di sollievo. Può stare molto tranquillo, chi sbarca oggi in Italia dopo lunga assenza. L'impegno civile di Sanremo, il rugby, lo spirito olimpico: non c'è niente di effettivamente preoccupante.
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