Oh, peccato per chi se l'è persa, perché la finale del Premio Strega, andata in onda venerdì sera in diretta su Rai 3, è stata la più sorprendente diretta televisiva della storia della televisione italiana. Nessun film dell'orrore, nessun George Romero o Dario Argento, nessuna fiction decrepita prodotta dalla Rai, potevano arrivare a tanto.
Sarà stato lo spostamento dal Ninfeo di Valle Giulia all'Auditorium, ma l'effetto è stato come dissotterrare cadaveri da un cimitero spostandoli nello studio di Bruno Vespa, sembrava tutto un plastico benché in putrefazione, la celebrazione della letteratura che non c'è, il top della massoneria culturale, un congresso di zombi che si leccavano l'un l'altro, un obitorio illuminato rispetto al quale perfino il Parlamento italiano sembra un'avanguardia, una pompa magna senza fine, una pompa funebre e un magna magna di necrofagi usciti dai sarcofagi.
Da rabbrividire fin dall'inizio, dopo la lettura che Paola Pitagora ha fatto delle pagine di Maria Bellonci, come se fosse Proust, a me è venuta la pelle d'oca e poi la nausea. Soprattutto quando ha detto di essere emozionata da quando è diventata Amica della Domenica, perché «allo Strega arriva solo la crema della letteratura italiana». Più che crema direi una cremazione.
Con un deceduto che c'è stato davvero, Valentino Zeichen, al quale è venuto un ictus quando gli hanno comunicato l'esclusione dalla cinquina e è morto quando gli hanno dato il vitalizio della Legge Bacchelli, mica stupidi, questi della Bacchelli. E un resuscitato, Antonio Franchini, che quest'anno ha lasciato Mondadori per Giunti e dopo l'esclusione del suo candidato (Antonio Moresco) ha denunciato i trucchi del Premio Strega, dopo trent'anni di Mondadori li conosce benissimo. Tra parentesi: quello di Moresco era il libro peggiore di Moresco, e parla della vita che è la morte e della morte che è la vita, quindi poteva benissimo entrare e vincere.
E poi tante smancerie sul nulla, un presentatore di cui non so il nome simile a un becchino, prelevato forse dal cimitero del Verano, e Nicola Lagioia, vincitore dell'anno scorso, nelle vesti di aiuto becchino o rappresentante di urne funerarie, giacca e cravatta nere su camicia bianca, e intorno tutto il provincialismo letterario italiano dell'establishment narrativo dei defunti vivi, rampicanti secchi che ancora si arrampicano sperando di scolarsi l'ambito liquore che nessuno beve se non lì.
Tante rughe, facce putrefatte, sguardi tenuti aperti con gli spilli, e tanta generazionalità dichiarata e in rigor mortis: la generazione dei ragazzi del delitto del Circeo, mai sentita ma se l'è inventata Edoardo Albinati, autore de La scuola cattolica, con un muso lungo come se l'Isis gli avesse sterminato la famiglia; in lizza con Eraldo Affinati, titolo del libro L'uomo del futuro, che non è Steve Jobs, ci mancherebbe, ma la generazione di Don Milani, wow; in lizza con Vittorio Sermonti, che invece parla della sua generazione e dei partigiani, una botta di vita. I tre si sono ciucciati il primo, il secondo e il terzo posto, sebbene sui primi due aleggi il dubbio che i catatonici giurati abbiano scambiato Affinati con Albinati, ma tanto poco cambia, solo il numero di pagine, un migliaio quelle del romanzo di Albinati. O di Affinati, non ricordo.
Quarti e quinti due giovani, si fa per dire, Giordano Meacci (in quota minimum fax, e dunque dell'editor della casa editrice Lagioia), e la femmina nuda Elena Stancanelli, per fortuna vestita, cinquant'anni e non li dimostra, sembra la sorella di Lidia Ravera, arrivata ultima, a riprova che Lagioia conta più di Elisabetta Sgarbi. Ha parlato anche la moglie di Sermonti del libro di Sermonti ma mi resta il dubbio non fosse Ludovica Ripa di Meana bensì Corrado Augias con lo chignon.
Tutti impettiti, con una spocchia mai vista, perfino alle riunioni dell'Accademia dei Lincei sembrano più umili. Tutti romani (o romani d'adozione, come la femmina nuda vestita), e primo e secondo posto a Rizzoli e Mondadori, così, per dimostrare che a Segrate all'antitrust se ne fottono.
Meno male c'è stato Sandro Veronesi, a ricordare il più grande scrittore italiano vivente: Raffaele La Capria. In effetti Aldo Busi o Alberto Arbasino, tanto per dirne due, sono troppo giovani, ancora non li hanno letti.
A me, perché non si pensi che «rosico», (come ormai si pensa sempre quando si critica qualcosa o qualcuno vivente, figuriamoci dei morti che si premiano), una volta un editore importante mi propose di andarci, ma dovevo parlar bene di tutti e presenziare a destra e sinistra; ritirai il romanzo e lo detti a un altro editore, perché lì non mi ci vedrete neppure morto, sebbene anche nella bara sembrerei comunque più vivo dei presenti.
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