
Michael Frayn era conosciuto, in tutto il mondo, per lo spettacolo "Rumori fuori scena", ritenuta la commedia più divertente del secolo scorso, fino a quando non scrisse "Copenaghen", considerato il suo capolavoro drammatico che, in Italia, è stato più volte rappresentato dalla Compagnia formata da Umberto Orsini, Giuliana Lojodice, Massimo Popolizio, regia Mauro Avogadro, a dimostrazione che esistono dei bravi drammaturghi che possono passare, con disinvoltura, dalla commedia esilarante alla tragedia, dal fare ridere a crepapelle, a fare riflettere sulla responsabilità della scienza e degli scienziati quando lavorano sulla scissione dell'atomo. Argomento trattato in "Copenaghen", dove l'autore fa incontrare due premi Nobel come Niels Bohr e Werner Heisemberg, impegnati nella costruzione della bomba atomica: il primo in America, il secondo in Germania. Michael Frayn rimase incredulo dinanzi al successo di "Copenaghen" che aveva doppiato il successo di "Rumori fuori scena", tanto che si affrettò a dire che, quando un'opera di fiction tratta di personaggi ed eventi storici è giusto e ragionevole sapere o conoscere quanto di vero esista e quanto ci sia di invenzione, dilemma che esiste anche per una commedia comica come "Rumori fuori scena", al Parenti da oggi al 23 luglio con la regia di Massimo Chiesa e la talentuosa The Kitchen Company.
La tecnica, utilizzata dal commediografo inglese, oggi novantunenne, è la stessa e consiste nell'entrare all'interno di una struttura drammatica, nel nostro caso, in quella del dietro le quinte, dove accade di tutto prima di andare in scena, o cosa avviene nella mente di due scienziati che cercano di utilizzare la struttura dell'atomo per una invenzione capace di distruggere l'umanità. Per Frayn i meccanismi sono gli stessi, è sufficiente adeguare il linguaggio teatrale, che ha una sua specificità, alle circostanze, comiche e drammatiche. Debbo confessare che quando ho visto la prima edizione italiana di "Rumori fuori scena", nella versione della Compagnia Attori e Tecnici, con la regia di Attilio Corsini (1983), ho pianto dalle risate, nel senso che non riuscivo a trattenermi; merito, non solo degli attori e della regia, ma anche di quel meccanismo perfetto che Frayn aveva creato e che faceva pensare a Feydeau, a cui si è parecchio riferito Valerio Binasco, nella sua versione del 2019, al Teatro Carignano, prodotta dal Teatro Stabile di Torino. Massimo Chiesa, fin da bambino, ha conosciuto, alla perfezione cosa accade dietro le quinte tra ansie di prestazioni e rivalità professionali, sa bene cosa siano le tresche sentimentali, gli imbarazzi durante periodi di prove disastrose, quando tutto appare fuori controllo, conosce i meccanismi che portano l'attore ad improvvisare, con le conseguenti dinamiche che vengono a crearsi. Mettere ordine a tutto questo, sembra dirci Frayn, non è semplice, come non lo è per un regista impossibilitato a metterlo quando tutto è avvolto in un caos interpretativo, quando si debbono seguire le regole ferree della comicità che sono, spesso, regole di sovvertimento di tutto ciò che, a prima vista, potrebbe sembrare naturale.
In particolare Massimo Chiesa ha
lavorato sui sensi di colpa che attraversano l'attore quando scopre di essere stato, egli stesso, la causa del sovvertimento e del caos che avviene dentro e fuori la scena o dei disastri imbarazzanti che ne possono seguire.