Roma - Guarito dall’influenza indiana, Francesco Rutelli non è stato con le mani in mano, ieri. È tornato a Palazzo Chigi, rompendone la quiete domenicale, e ha concesso interviste a raffica ai tg. E ha lanciato un nuovo, secco ultimatum all’ala sinistra dell’Unione, chiudendo la porta alle nuove trattative che (sembra temere il vicepremier) Romano Prodi sarebbe pronto a intavolare. A cominciare dall’ipotesi, che ieri era tornata a circolare, di slittamento del famoso e mai convocato vertice di maggioranza che dovrebbe fare il punto sulla politica estera e sullo stato dell’alleanza.
E così ieri sera il tasso di nervosismo dentro l’Unione è tornato a livelli di guardia, ma a sera Prodi sembrava deciso a rompere gli indugi e ad accelerare la verifica, riunendo il summit del centrosinistra entro la prossima settimana, nonostante le resistenze della sinistra e le proprie perplessità sul rischio di «incartarsi».
«È bene che le forze più radicali si allineino sulla linea che è quella comune, di tutti», e «le forze della sinistra non devono cercare di spostarla» perché «non ci sono due politiche estere, ce n’è una sola», ha scandito ieri Rutelli. Che poi ha rivendicato di aver «difeso» Prodi quando in questi giorni la sinistra lo ha smentito, facendo vacillare l’Unione: «Ha detto che è chiusa la decisione su Vicenza e troppe forze l’hanno riaperta, ha chiesto il voto sul decreto per le missioni all’estero e troppi partiti non l’hanno concesso in Consiglio dei ministri; al Senato non c’è stato il sostegno necessario a Parisi che ha esposto la linea italiana», è il lungo elenco delle sconfitte incassate dal premier.
Il problema è che Prodi non sembra troppo grato per la «difesa» di Rutelli, e basta vedere le reazioni sempre più nervose dei partiti della sinistra alternativa per capirne le ragioni. «Non comprendiamo i continui ultimatum di Rutelli e non vorremmo che si stesse cercando a tutti i costi un casus belli», insorge il capogruppo verde Bonelli. «Per quanto ci riguarda, ci si allinea solo sul programma che non prevede né la costruzione di nuove basi americane, né il taglio delle pensioni», tuona Rizzo del Pdci. Rifondazione morde il freno, ma si limita a replicare col capogruppo Gennaro Migliore che «noi non stiamo tirando per niente la corda», e a ricordare al vicepremier che «la coalizione è plurale, e Rutelli se ne deve fare una ragione».
In questo clima di guerriglia, è comprensibile che Prodi fosse ieri assai titubante sull’opportunità di convocare il vertice di maggioranza, come aveva promesso dopo il voto al Senato su Vicenza e il richiamo del capo dello Stato. La sinistra dell’Unione ha chiesto un rinvio, a dopo il ritorno di Prodi dall’India: il 17 c’è la manifestazione di Vicenza, e se Diliberto, Pecoraro e Giordano si presentassero lì dopo aver siglato una tregua sulla base e aver promesso i propri voti sull’Afghanistan «rischiano di essere presi a pernacchie dai pacifisti», notano dalle parti di Prodi. E il premier, dal canto suo, preferiva arrivare a un accordo su Kabul prima del vertice: il 13 febbraio il ministro Chiti incontrerà i capigruppo dell’Unione per studiare possibili modifiche al decreto, che forse già a fine febbraio arriverà alla Camera. Ma nel governo molti lo hanno spinto a prendere il toro per le corna: il ministro della Difesa Parisi è convinto che «prima si fa il chiarimento e meglio è», e quello degli Esteri D’Alema, dal lontano Giappone, manda a dire che lui, una volta in Italia (dovrebbe tornare stasera), sarà «disponibile per gli incontri e le riunioni considerati necessari».
Anche in casa Ds ieri pomeriggio si frenava: «Un rinvio è plausibile, il vertice deve servire a rasserenare e non a complicare ulteriormente le cose».
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