Sì all’estradizione per Assange Ma lui si appiglia all’ultimo cavillo

Lui, bloccato dal traffico. L’esecuzione della sentenza, invece, bloccata dell’ennesimo ricorso dei legali che seguono Julian Assange in questo infinito braccio di ferro con il sistema giudiziario britannico.
L’appiglio è poco più di un cavillo. La Corte Suprema ha infatti dato l’ok all’estradizione in Svezia del patron di WikiLeaks citando la Convenzione di Vienna. Peccato che la pietra angolare dei trattati internazionali non sia mai stata tirata in ballo sino ad oggi. «I giudici ci hanno dato due settimane per spiegare alla corte per quale motivo riteniamo il verdetto una violazione dell’articolo 6 della convenzione europea sui diritti umani», ha detto Gareth Pierce, l’avvocatessa-guru che coordina la difesa di Assange. «Diciamo che si tratta di una questione procedurale. Se ci danno ragione, potrebbero riaprire il caso».
Difficile ma non impossibile. I giudici, d’altra parte, non hanno deliberato all’unanimità: cinque voti a favore rispetto a due contrari. La questione cruciale - Lord Phillip, il presidente della corte, l’ha spiegata subito: «In questo procedimento non scrutiniamo le accuse mosse dalla Svezia - ma l’interpretazione che si dà alla parola «autorità giudiziaria» usata nella formulazione del testo del mandato di arresto europeo.
Insomma, scoprire se le due ragazze che sostengono di essere state molestate sessualmente da Assange nell’estate del 2010 abbiano mentito o meno non è compito dei tribunali di Sua Maestà. Qui, alla sbarra, al posto dell’australiano ci è finito il mandato europeo.

Per la difesa «autorità giudiziaria» significa un giudice; per la Corte Suprema va bene anche un pubblico ministero, come sostiene la Svezia e come si evince dall’accezione francese dell’espressione «autorite‚ judiciaire».

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