Coronavirus

Milano, rischio focolaio in un centro di accoglienza

Sempre più timori di contagi specialmente dopo gli ultimi casi rintracciati all'interno di alcune strutture: dal Viminale però, al momento emerge solo un gran silenzio

Milano, rischio focolaio in un centro di accoglienza

Un problema sul discorso immigrazione c’è: le rigide misure di contrasto al coronavirus impongono una seria riflessione su quella che è l’attuale gestione dell’accoglienza nel nostro Paese. C’è qualcosa che non va e questo lo si sottolinea già da giorni.

C’è il pericolo di contagi all’interno di centri sovraffollati, c’è il timore relativo alle difficoltà di far rispettare le regole di distanziamento sociale in queste strutture e c’è, soprattutto, lo spauracchio di nuovi focolai incontrollati.

Su La Verità si parla ad esempio di nuovi contagi all’interno di un centro d’accoglienza di Milano, situato in via Aquila. Si tratta di una struttura gestita dalla Gepsa, una multinazionale francese che si occupa si altri centri anche all’estero. All’interno sono stati rintracciati otto migranti positivi al Covid-19, facendo quindi scattare l’allarme sanitario.

Quattro di loro sono stati posti in regime di sorveglianza sanitaria, altri quattro invece sono stati portati in altre strutture per la quarantena. Inoltre, per sanificare i locali e far garantire le misure di distanziamento sociale, 17 persone sono state trasferite in altre strutture. Otto contagiati sono molti per centri al cui interno trovano alloggio anche centinaia di persone, che vivono anche in spazi comuni e dormono in stanze a volte con più di cinque o dieci letti.

Nei giorni scorsi era trapelata, per bocca dello stesso ministro dell’interno Luciana Lamorgese, la proposta di “spalmare” in centri più piccoli sparsi in tutto il territorio nazionale i migranti ospitati nelle strutture più sovraffollate. Ma si è trattato di una proposta lanciata in un’intervista su Repubblica e nulla più. Al momento non ci sono state comunicazioni ufficiali a riguardo. Anche perché si tratta di un progetto di difficile realizzazione.

Negli ultimi giorni è poi trapelato un ulteriore timore: quello dell’impossibilità di isolare completamente i centri. E dunque di non poter garantire la salute sia dei migranti che degli operatori. Lo ha fatto notare ad esempio il sindaco di Gradisca d’Isonzo, Linda Tomasinsig: qui, nel locale centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr), un migrante è stato trovato positivo al Covid-19. Adesso lui è stato trasferito, ma le preoccupazioni da parte del primo cittadino appaiono ancora abbastanza forti: “I Centri per i rimpatri sono frequentati quotidianamente da persone che vivono all' esterno come personale delle forze di polizia, degli enti gestori, mediatori, giudici e avvocati – ha scritto su Facebook Linda Tomasinsig – Da qui il conseguente pericolo per loro e i loro familiari di diffusione del contagio”.

Un problema di non poco conto: essendo queste strutture molto sensibili, la mancanza di uno specifico controllo senza possibilità di evitare ogni contatto esterno, potrebbe innescare focolai preoccupanti.

Sul caso esiste una circolare del Viminale datata 26 marzo, in cui viene stabilito che per i migranti è possibile ancora incontrare persone dall’esterno, tra avvocati ed operatori, ma a distanza di due metri. Tuttavia, non emergono al momento regole comuni più precise ed in grado di rassicurare sindaci, amministratori, cittadini e gli stessi migranti.

Nella circolare sopra menzionata, viene inoltre specificato che “Ai maggiori oneri dovuti all' incremento dell' erogazione dei servizi di accoglienza – si legge – si potrà provvedere con la stipula di appositi atti aggiuntivi alle convenzioni attualmente in corso”. Dunque, i centri dovranno provvedere da soli ad adeguare le strutture alle nuove esigenze sanitarie, ad emergenza finita eventuali costi aggiuntivi verranno presi in considerazione con la stipula di nuovi atti. Per il momento la linea dettata dal governo si limita a questo.

Non molto, vista la natura grave del problema.

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