Coronavirus

La prigionia della solitudine: se il Covid-19 aggrava l'Alzheimer

Con l'arrivo del nuovo coronavirus e l'interruzione della socialità, le tante attività dedicate alle persone affette da decadimento cognitivo si sono interrotte. Così l'isolamento forzato ha peggiorato la malattia e avvilito i familiari

La prigionia della solitudine: se il Covid-19 aggrava l'Alzheimer

La sveglia è sempre verso le 8.30 del mattino. Anna, da qualche tempo, non si alza più da sola come faceva prima, ma qualcuno la deve chiamare. Sul tavolo c'è una colazione semplice, che si consuma con due fette biscottate con la marmellata, un caffè con un po’ di zucchero e il rito delle medicine da prendere con un bicchiere d'acqua. La mattinata è lunga, ma qualche attività da svolgere in effetti c'è. Ci sono i letti da rifare, l'aspirapolvere da passare sul tappeto del salone e l'ossessione di qualche panno da stirare. Che le è rimasta. Anna, nella vita, ha sempre fatto tutto da sola, ma da un paio d'anni ha smesso. Poco alla volta. Ha iniziato a non essere più sicura di se stessa un pomeriggio di cinque anni fa quando, guidando la propria auto, non era certa di conoscere quale fosse la strada più giusta per raggiungere la sua abitazione. O quando ha iniziato a dimenticare le cose meno importanti. All'inizio nessuna delle persone che le stava attorno pensava a qualcosa di strano. Poteva essere di tutto: un po' di stress, un problema di concentrazione o semplicemente qualche dimenticanza. Poi, gradualmente, le cose sono cambiate. Sono arrivate le ripetizioni insistenti, le preoccupazioni che potessero manifestarsi amnesie più gravi e quei concetti che tornavano sempre nei discorsi. Anna ha continuato a essere la stessa persona, ma con qualche tassello in meno. In questi anni, nessun medico le ha mai parlato espressamente di malattia di Alzheimer, ma ciò che le è stata diagnosticata è una forma di demenza, di decadimento cognitivo. Tuttavia questo senso di insicurezza non le ha mai fatto trascurare il suo aspetto, sempre impeccabile.

La gabbia

Anna l'ultima passeggiata dove ha potuto incontrare altre persone che non fossero la sorella più giovane (che vive con lei) o una badante l'ha fatta sabato 22 febbraio, quando fuori casa era ancora inverno e quando il sole tramontava presto. Poi più niente. Nessun incontro, nessuna attività esterna utile ad allenare concentrazione e memoria e, soprattutto, nessun esercizio in grado di riportarle un po' di lucidità e soprattutto un po' di tranquillità. La notizia del primo paziente a essere risultato positivo al nuovo coronavirus, a Codogno, in provincia di Lodi, ha travolto ogni cosa e ha cambiato, in particolare, il quotidiano di persone che a quel tipo di normalità affidavano tutto. Anche loro stessi. Anna come molti altri.

Alzheimer
Due signore attraversano la strada con i dispositivi di protezione (Foto LaPresse)

I gesti quotidiani, gli appuntamenti settimanali con specialisti e volontari, improvvisamente, si sono dovuti interrompere per motivi di sicurezza sanitaria. E così, a un tratto, le persone con disturbi di memoria, demenza, decadimento cognitivo e morbo di Alzheimer (e le loro famiglie) si sono trovate, di fatto, ad affrontare due enormi problemi: il Covid-19 e l'isolamento. Perché se due mesi di lockdown hanno messo alla prova la sanità mentale di chiunque, la presenza di queste patologie ha fatto pesare ancora di più l'imposizione della chiusura. L'obbligato restringimento degli spazi, con la cancellazione temporanea della socialità e di piccole uscite giornaliere ha peggiorato (e non di poco) situazioni già compromesse. E se si è parlato molto delle conseguenze della quarantena sulla qualità della vita di tutti (come di chi si è ammalato gravemente), si è parlato invece molto poco degli effetti delle restrizioni su questo genere di malattia e su che cosa accadrà dopo a chi, per tanto tempo, è rimasto chiuso in casa. Il Covid-19, che si è imposto nelle corsie degli ospedali e nei reparti di terapia intensiva, ma è entrato anche nella vita delle persone affette da Alzheimer e dei loro familiari. E, ovviamente, l'ha fatto senza chiedere il permesso.

Che cos'è l'Alzheimer

Quando si parla di malattia di Alzheimer, che oggi colpisce circa il 5% delle persone che hanno più di 60 anni, è necessario distinguere le tante tipologie. All'inizio chi è colpito comincia a dimenticare alcune cose fino ad arrivare, nei casi più gravi, a non riconoscere più i propri familiari e ad avere bisogno d'aiuto anche per le più semplici azioni quotidiane. L'Alzheimer è, secondo l'istituto superiore di Sanità, la forma di demenza senile più comune, uno stato provocato da un'alterazione delle funzioni cerebrali che implica serie difficoltà nella gestione della propria quotidianità. La malattia colpisce principalmente la memoria e le funzioni cognitive, ma si ripercuote anche sulla capacità di parlare e di pensare e può causare stati di agitazione, confusione, cambiamenti d'umore e disorientamento spazio-temporale. Oggi, in Italia, le persone affette da questa malattia (scoperta nel 1907 dal medico tedesco Alois Alzheimer) sono circa 500mila. Non sono ancora ben chiare le sue cause, ma nei pazienti si osserva una perdita di cellule nervose delle aree cerebrali, vitali per la memoria e altre funzioni cognitive, e un basso livello di quelle sostanze chimiche, come l'acetilcolina, che lavorano come neurotrasmettitori e sono quindi coinvolte nella comunicazione tra cellule nervose.

La malattia, i sintomi e il decorso

In genere, il decorso di questa malattia è lento e, in media, i pazienti possono vivere diversi anni dopo la diagnosi. All'inizio, l'Alzheimer si manifesta anche solo con qualche problema a ricordare, ma si può concludere con grossi danni cerebrali. Tuttavia, la rapidità con cui i sintomi si acutizzano varia da un soggetto all'altro. Nel corso della malattia, i deficit cognitivi aumentano: i malati pongono di continuo le stesse domande, ripetono i concetti, si perdono in luoghi familiari, non riescono a seguire le indicazioni impartite da chi li assiste e hanno disorientamento sul tempo e sullo spazio. Nei casi più gravi, trascurano (o ignorano) la propria sicurezza personale, l'igiene e la loro nutrizione. Tutti elementi che, con l'arrivo del nuovo coronavirus, avrebbero potuto esporre i malati a rischi di contagio altissimi. Oggi si può chiarire la presenza del morbo attraverso l'identificazione delle placche amiloidi nel tessuto cerebrale, possibile soltanto attraverso un esame autoptico dopo il decesso del paziente. Per questo motivo, durante il decorso della malattia si può fare soltanto una diagnosi di Alzheimer "possibile" o "probabile", attraverso esami clinici (come quello del sangue, delle urine o del liquido spinale o attraverso l'impiego di tecniche di neuroimaging, mediante il tracciante specifico dell'amiloide), test neuropsicologici per misurare il grado di attenzione, la memoria, la capacità di contare, dialogare o risolvere problemi e Tac, o meglio RMN cerebrali, che evidenziano ogni anomalia ed escludono altre patologie.

Chi cura e malati e come lo fa

Anche se attualmente non esistono farmaci in grado di fermare e di far regredire la malattia in senso stretto, i trattamenti disponibili puntano a contenerne i sintomi e gli effetti sulla vita quotidiana. Dai casi più lievi a quelli più gravi (che ovviamente necessitano di mezzi diversi). I tipi di cura non sono tutti uguali e non tutti prevedono l'uso di farmaci specifici. La terapia di orientamento alla realtà (chiamata anche ROT) è, per esempio, ritenuta tra le più efficaci: è finalizzata a orientare il malato rispetto alla propria vita personale, all'ambiente e allo spazio che lo circonda, tramite stimoli continui di tipo verbale, visivo, scritto e musicale. Ma oltre a questo, specialisti, assistenti sociali, psicoterapeuti, volontari e associazioni si impegnano quotidianamente affinché pazienti e familiari abbiano una buona qualità della vita. C'è la musicoterapia, l'arteterapia, i gruppi che aiutano i malati ad allenare le proprie capacità cognitive attraverso cicli di incontri e ci sono anche gli Alzheimer Cafè, pensati la prima volta in Olanda nel 1997 dal geriatra Bère Miesen, che sono luoghi sicuri dove le persone con demenza, i loro cari e i caregiver si incontrano in modo informale per trascorrere alcune ore in un'atmosfera protetta e accogliente, incentrata sull'ascolto.

Nuovo virus: fine della socialità

La finalità degli Alzheimer Cafè, che si svolgono in tutta Italia, è quella di interrompere l'isolamento e lo stigma che circonda questa malattia e chi ci deve convivere. A Milano, la fondazione Manuli, dal 1994, aiuta gratuitamente malati e familiari nel superamento di questa cortina di solitudine e dal 2007 organizza gli Alzheimer Cafè. Così questi nuclei familiari, una volta alla settimana, si presentano in un vero bar aperto al pubblico dove ad accoglierli ci sono esperti e volontari, che li dividono in due gruppi distinti. E mentre i malati svolgono attività cognitive, simulative, ludico-ricreative e sono correttamente stimolati, i loro familiari sono ascoltati e supportati da psicoterapeuti, assistenti sociali e, all'occorrenza, da altri consulenti. L'attività si conclude con un ricongiungimento del nucleo familiare e un momento conviviale. Ma con l'abbattersi del nuovo virus, questo tipo di incontro si è fermato, bruscamente. "È stato un dramma, per tutti. Abbiamo fatto il nostro ultimo Alzheimer Cafè il 21 febbraio e il 24 abbiamo congelato tutte le attività, anche perché non sapevamo come la situazione sarebbe andata avanti. Le famiglie, inizialmente, erano tutte consapevoli ed erano fiduciose che la cosa potesse risolversi velocemente. Purtroppo poi non è stato così", racconta al Giornale.it Ornella Mazza, vice presidente della fondazione Manuli, che ha spiegato come il Covid-19 abbia letteralmente cristallizzato i malati e queste attività, che alleviano il peso della malattia a circa 60 famiglie del capoluogo lombardo.

Alzheimer Cafè
Un momento dell'Alzheimer Cafè organizzato da Fondazione Manuli

"Prima di lasciare gli uffici per il lockdown, in fretta e furia, abbiamo portato via tutti i numeri telefonici di tutti i nuclei assistiti, perché non volevamo lasciarli soli, non avendo idea di quanto potesse andare avanti questa situazione –spiega Mazza -. Così abbiamo preso tutti i registri per poterli rintracciare, abbiamo creato una rubrica su Facebook, #comunquevicini, e abbiamo dato loro informazioni utili per gestire questa nuova situazione". E questo, in effetti, ha dato una grossa mano nella gestione della malattia in tempo di coronavirus.

Il peggioramento comportamentale

Paolo Caffarra, docente di Neurologia e Neuropsicologia all'Università di Parma, è convinto che il coronavirus e le sue restrizioni abbiano avuto un impatto notevole su questa patologia. Le telefonate dei familiari dei pazienti durante il lockdown lo confermano: "Effettivamente c'è stato un moderato peggioramento dei malati a livello comportamentale. La restrizione spaziale ha peggiorato anche le loro capacità deambulatorie. Solitamente noi suggeriamo di far fare lunghe passeggiate, perché questo ha due scopi terapeutici: il primo è che camminare stanca e quindi consente un miglior riposo notturno; il secondo è che l'attività fisica aerobica tende ad aumentare il volume dell'ippocampo, che è una parte del nostro cervello preposto al buon funzionamento della memoria". Ma con le disposizioni di restringimento, queste possibilità sono venute meno. "Quello che noi ci attendiamo, dato che ci sono diversi tipi di demenze, è che ci possano essere profili diversi. Un malato di Alzheimer non avrà le stesse ripercussioni di chi ha la demenza frontotemporale, per esempio, ancora più difficile da gestire in un momento di emergenza sanitaria", spiega ancora il professor Caffarra. Questi ultimi soggetti, infatti, non ascoltano davvero le indicazioni dei propri cari, visto che, all'inizio, non hanno problemi di memoria o di orientamento: "Escono da soli perché ancora moderatamente autosufficienti e continuano le loro abitudini. Al momento ascoltano le indicazioni, asseriscono e poi fanno quello che vogliono, perché manca in loro il controllo inibitorio. Perciò non si sa con chi siano venuti a contatto e come, aumentando il rischio di infezione. Nonostante tutte le raccomandazioni ".

Gli scompensi

Katia Stoico è una psicoterapeuta che, all'interno della fondazione Manuli, da anni, assiste familiari e pazienti nella gestione di questa malattia. È stata lei a chiamare quotidianamente i nuclei che da tempo frequentano le attività dell'associazione, durante l'emergenza sanitaria. "Ho fatto ore e ore di telefonate e anche se il risultato non è lo stesso, siamo rimasti comunque loro vicini", racconta l'esperta. Che spiega: "Più passava il tempo, più la situazione si aggravava. I pazienti si sono trovati senza nessun tipo di stimolo esterno, nessuna attività specifica costruita apposta per loro, nonostante i caregiver cercassero di stimolarli e di coinvolgerli (e sono stati bravissimi nel farlo). La chiusura ha peggiorato la situazione cognitiva e questo fatto ha coinvolto diversi nostri pazienti contemporaneamente. Una cosa che non era mai accaduta prima". Oltre al rallentamento cognitivo, secondo la psicologa, qualche problema c'è stato anche nell'ambito affettivo-relazionale: "Non essendoci più la possibilità di frequentare persone altre che non fossero il caregiver di riferimento, c'è stata anche questa criticità. Spesso, i più anziani si sono trovati anche lontani dai propri affetti che, magari per il timore di contagiarli, non li hanno potuto nemmeno vedere. Questo ha rappresentato un blocco affettivo-relazionale". E lo scompenso è confermato anche dal professor Caffarra: "Ho ricevuto molte telefonate con richiesta di aggiustamento della terapia. Per chi era in trattamento antipsicotico per il controllo di alcuni disturbi, togliere i momenti di svago e di sfogo, come sono anche gli Alzheimer Cafè, ha generato un aggravamento degli aspetti comportamentali. In alcuni casi c’è stato bisogno di un piccolo incremento della posologia del farmaco".

La gestione del caos (in casa)

Ma se per il malato è stato complicato decifrare la situazione straordinaria nella quale tutti si sono ritrovati con l'arrivo del Covid-19, i familiari e i caregiver hanno dovuto fare i conti con una gestione nuova della malattia, molto più complessa del normale. L'irrequietezza, i continui stati di agitazione, il wondering, il compiere sempre gli stessi gesti, come aprire e chiudere i cassetti o tirare fuori gli oggetti, non hanno rappresentato una situazione di tranquillità nemmeno per chi vive con loro e li assiste. E la necessità di sospendere ogni attività esterna si è trasformata in un profondo senso di solitudine e avvilimento. Il professor Caffarra ritiene che un grande aiuto, in questi casi, venga dall'esperienza degli psicologi che, tramite le loro tecniche di approccio riescono a intervenire anche da remoto. Tuttavia, quando non sono sufficienti questi suggerimenti, allora è necessario agire diversamente: "In accordo con i familiari, lo specialista deve sempre essere in contatto conil medico di base (un passaggio obbligatorio) e stabilire con lui un programma di intervento farmacologico. E se i disturbi comportamentali non potessero essere più gestiti a domicilio non c'è che il ricovero". Anche se, come confermato dal neurologo, la degenza, in piena emergenza Covid-19 avrebbe rappresentato un fattore di rischio in più per contrarre l'infezione su persone già debilitate. "In ogni caso, la prima cosa da fare in situazioni di questo tipo è non esitare a chiamare subito il proprio medico di medicina generale ed eventualmente lo spiacialista che ha in cura il paziente, le associazioni di volontariato, che offrono consulti telefonici per chi ha una diagnosi di demenza. Il mio consiglio è di non lasciarsi prendere dal panico, ma di chiamare, perché l’aiuto attraverso il colloquio telefonico può aiutare a risolvere molte cose. Il fai da te è sconsigliato", conclude il neurologo.

I consigli ai familiari

Mentre il Paese si prepara ad affrontare un'estate sicuramente diversa e una fase due dai contorni ancora da definire davvero, ma comunque libera da vincoli e costrizioni, i momenti di socialità per anziani e malati Alzheimer non riprenderanno con la stessa facilità con cui si sono riattivate le attività produttive. Il rischio, quindi, è quello di isolarli ancora. "Ai familiari, che nel bilancio complessivo di questo periodo sono stati bravissimi e hanno preso spunto anche dalle nostre attività, consiglio di far fare degli esercizi di ginnastica, utili sia per tenere allenato l'aspetto motorio, sia per gestire l'irrequietezza", conferma la psicologa Stoico. Che aggiunge: "Suggerisco anche di utilizzare le attività domestiche con l'obiettivo di stimolare il paziente, abbandonando l'aspettativa che la cosa sia fatta bene, perché lo scopo non è questo. Oppure, di solito, dico di scaricare immagini da internet da colorare, in base alle attitudini del malato. Certo, affinché loro siano interessati, sarebbe meglio svolgere insieme le varie attività. Conoscendo tutti i nuclei familiari, io ho cercato di dare loro suggerimenti personalizzati, a misura di paziente".

Alzheimer
Una donna affetta da demenza svolge l'attività a casa durante l'epidemia

Le attività (e il recupero) da remoto

La Fondazione Manuli, durante il periodo di quarantena, ha mantenuto un contatto con le famiglie e ha continuato a seguire i malati da remoto, attraverso telefonate, mail e indicazioni pubblicate anche sui canali social. La stessa cosa è accaduta anche ad altre realtà, sparse in Italia. "Le psicologhe che collaborano con me hanno cercato di trasferire in forma digitalizzata, su tablet, tutta una serie di suggerimenti e di allenamenti che, in condizioni normali, venivano fatti con carta e matita. Anche attraverso il classico telefono, ad esempio, si possono eseguire semplici valutazioni cognitive di screening. Le tecnologie di comunicazione attuali si sono rivelate un mezzo importante per la prosecuzione dei cicli di stimolazione cognitiva", conferma il professor Caffarra, che definisce questo passaggio un primo esperimento (anche perché non tutte le persone coinvolte hanno a disposizione telefoni, la linea internet o i dispositivi elettronici adeguati). "Quando la distanza costituisce un grosso ostacolo, la tecnologia aiuta: tramite i figli sono stato contattato per mezzo di videochiamate, potendo vedere i pazienti, il loro comportamento motorio, l'espressione del volto e parlare con loro, il che è stato di grande aiuto", aggiunge il neurologo.

Cosa succederà adesso?

Sul come e quando riprenderanno le attività di gruppo e la socialità, gli esperti non sanno dare una risposta precisa in termini di tempo. "Ci stiamo reinventando – conferma Mazza, di fondazione Manuli -. Non sarà facile per una realtà come la nostra, sempre abituata a lavorare con il contatto diretto umano, con la possibilità di toccare, abbracciare, coccolare, raggiungere i malati con la comunicazione non verbale".

Anziane
Due signore anziane indossano i dispositivi di sicurezza anti-Covid (Foto Fotogramma)

"Stiamo cercando di strutturare delle attività che possano essere raggiunte dai familiari, fino a quando non si potrà ricominciare a incontrare queste persone. Ma, trattandosi di soggetti fragili, anziani o con patologie croniche, sicuramente non sarà una cosa molto vicina", spiega ancora commossa la vicepresidente. "La tecnologia, in questo periodo di Covid-19 è stata utilissima, ma dobbiamo ricordarci che abbiamo a che fare con persone anziane o molto anziane, che hanno difficoltà a vedere piccoli schermi. I pazienti soffrono di un decadimento cognitivo: per alcuni di loro, anche soltanto guardare la televisione (che, qualche volta, faticano a distinguere dalla realtà), è difficile, immaginiamo con i nuovi mezzi", osserva la psicologa Stoico. Che conclude: "Il malato non può acquisire nuove competenze. Non può imparare a usare il computer e questo è un problema grosso.

Quando poi viene meno l’aspetto cognitivo, il contatto umano fisico e diretto è quello che trasmette a loro ciò che le parole non trasmettono più".

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