Il Corriere delle Sera del 24 dicembre dedica un lungo articolo a firma di Giorgio De Rienzo al disegno di legge Frassinetti per la costituzione del Consiglio Superiore della Lingua Italiana. Purtroppo larticolista ne parla confondendolo con il ddl Pastore del 2001, e neppure con la sua versione definitiva. Evidentemente non ha letto attentamente né il vecchio testo, né soprattutto il nuovo, che recepisce anche i suggerimenti di autorevoli storici della lingua italiana come Maurizio Dardano, Pietro Trifone e lo stesso Serianni menzionato nellarticolo. Il ddl Frassinetti, infatti, non contiene alcun accenno ai dialetti. Inoltre, ed è il punto più importante, tra i componenti del CSLI previsti nel nuovo ddl non figurano le istituzioni a cui fa ancora riferimento De Rienzo: lAccademia della Crusca e la «Dante». Il suo è quindi, in buona parte, un discorso a vuoto, con punte polemiche piuttosto fiacche, per la verità, come quando il CSLI viene definito «unammucchiata», perché i ministri che ne fanno parte non operano da soli, ma «affiancati da docenti universitari». Come se fosse una calamità da scongiurare!
«La rifondazione della lingua attraverso la formazione dei docenti»? Indubbiamente si tratta di una strada da percorrere, ma non è una panacea. Oggi litaliano è diventato una lingua di massa, parlata da milioni e milioni di persone e in queste condizioni la stessa azione della scuola si rivela insufficiente, se non si coinvolgono quei settori che diffondono modelli linguistici di ampio consumo: stampa, tv, editoria. È evidente che per questo occorre unidea guida, un progetto pilota, di cui soltanto un organo ad hoc come il CSLI può farsi carico.
Quando si parla di tutela della lingua, inevitabilmente sorge il problema degli anglicismi. A quelli giudicati imprescindibili da De Rienzo se ne potrebbero contrapporre tanti altri chiaramente inutili: authority, educational, compilation, ecc. Ma il punto non è questo. Langlicizzazione non è tanto un male in sé, quanto il sintomo, anche se tra i più vistosi, di un malessere più profondo: la disaffezione alla lingua nazionale, che dal 70 in poi è stata incoraggiata in mille modi. La lingua non è soltanto uno strumento di comunicazione, che riflette (occasionalmente) la cultura. Come dice Joshua Fishman, in molte aree della vita reale la lingua «è» la cultura. Senza questa consapevolezza non cè «rifondazione dellitaliano» che tenga.
Tra i fautori dellitaliano senza legge è anche Nicoletta Maraschio la quale, interpellata sempre il 24 su la Repubblica, sostiene che lo Stato dovrebbe svolgere unazione «indiretta», delegando ad altre istituzioni la cura o tutela della lingua. Ma si tratta di unopinione insostenibile per più di un motivo e comunque contraria alla realtà dei fatti. La politica linguistica, così come quella culturale, economica, ecc., è dovunque prerogativa dei governi in carica, e se cè unanomalia, è soltanto italiana. Quanto alle imposizioni, non sono affare di governi democratici, come è noto, e in ogni caso lesperienza ha dimostrato tutta la loro inefficacia. Tuttavia, a scanso di equivoci, è bene precisare che una politica linguistica si attua principalmente con i mezzi della «persuasione morale», ma anche, alloccorrenza, con incentivi e facilitazioni, che possono essere utili, a esempio, per favorire presenza e qualità della nostra lingua nel mondo del lavoro, nel commercio e nella pubblicità. Sono compiti che solo un organismo governativo può svolgere. Non so se questo sia «dirigismo», come ripete la Maraschio, anche perché Giacomo Devoto usò questo termine in senso tuttaltro che negativo.
Le lingue nazionali non sono fenomeni «naturali», ma la creazione consapevole di una comunità politicizzata.
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