Massimiliano Lussana
Il nuovo disco di Bersani, nei testi, ha una ricerca linguistica straordinaria. Samuele maneggia le parole come fossero tesserine dorate di un mosaico bizantino. In molte canzoni, ne esce un capolavoro. Ma questa non è una notizia. Da quando ha iniziato a cantare, da quando ha scritto Il mostro che lo portò ad essere ospitato, ventenne, nei concerti di Lucio Dalla, tutto questo per Samuele è quasi normale. La notizia, stavolta, è che anche i suoni de Laldiquà, il suo nuovo disco, sono montati allo stesso modo delle parole. Lasciando dietro di sé un effetto a volte straniante, mai banale.
Bersani, come funziona questa metamorfosi? Lei, tastierista, che abbonda con le chitarre...
«Stavolta - tranne che per Scrutatore non votante, che è nata tutta dun fiato - ho scritto prima la musica e poi, in un secondo tempo, i testi. E devo dire che laspetto musicale mi convince moltissimo».
Ci credo. Stavolta ha lasciato perdere le collaborazioni in voce. Ma si rifà ampiamente con gli autori delle musiche. Come è arrivato a collaborare con Armando Corsi?
«Lo corteggiavo da tempo. Io, come tanti altri, ho iniziato ad ascoltarlo nei concerti di Ivano Fossati, poi lui è venuto ad assistere ad un paio di miei concerti in Liguria. Ed ho scoperto non solo un grande chitarrista, ma anche un filosofo della chitarra».
Poi cè Pacifico, ormai fate coppia fissa. Lui nellultimo disco canta Polifemo, lei Maciste. Volete diventare una figura mitologica, il Pacibersani?
«È semplice, con Gino cè complicità».
Traspare. Così come, da tutto il disco, traspare una serenità di fondo. Cosa cè dietro?
«Laldiquà è il disco del mio ritorno a casa, a Cattolica. Del recupero delle mie origini. Ho dormito nella mia cameretta, dove i miei genitori hanno lasciato tutto come era. Ho ritrovato papà e mamma...».
E poi ha inserito, nel finale del disco, una ghost-track in cui duetta in dialetto romagolo con Rino, un bagnino di salvataggio.
«Quando passavo con il passeggino lui mi cantava le sue canzoni, di cui - come me - non ricorda mai le parole. Forse, se canto, lo devo allimprinting di questo cantastorie popolare».
Daccordo la musica. Ma i testi dove li trova? Vabbè che di lei hanno scritto che mette «cortometraggi in metrica», ma raccontare addirittura La soggettiva del pollo arrosto, forse è un filo esagerato. Non trova?
«Nella canzone, il pollo è il vero e proprio regista della situazione. Un giorno sono passato davanti a una polleria e mi sembrava mi guardasse. Ho solo cercato di immedesimarmi nel suo punto di vista. Poi, certo, cè anche la metafora. Ma cè anche il pollo...».
A furia di soggettive e di cortometraggi, fa nascere un sospetto. Non è che pensa di fare il regista? Lei, del resto, ha dato canzoni a due colonne sonore: Siamo gatti per Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare e Chiedimi se sono felice di Aldo, Giovanni e Giacomo...
«No, al massimo penso a scrivere non canzoni, ma musica per film. Però, nel mio futuro non cè un film, forse un romanzo che, per ora, sto scrivendo da tempo per me e per pochi amici che mi leggono».
Lei ha battuto il record mondiale di ossimori in questo disco. Punta ad entrare nella Settimana enigmistica?
«Nascono spontaneamente, perché sono affascinato dalle contraddizioni, dalle infinite sfumature di colori. Anche in politica: entro in lista solo se ho la certezza di non venire eletto».
Anche il titolo Laldiquà, in fondo, è un ossimoro.
«È nato parlando con Alessandro Bergonzoni, quando gli ho fatto sentire in anteprima Scrutatore non votante. Del resto, la canzone paradigmatica...».
Para-che?
«È una parola orrenda, lo so. Ma finché non me ne viene in mente una migliore... La canzone paradigmatica è Lascia stare che dice proprio questo: non alzare sempre lo sguardo, guarda qua, in basso».
Anche i suoi sportivi non guardano sempre in alto.
«Ed è un quarto felice, perché non si è dopato e perché è arrivato lì, ma pulito».
Scusi, ma lei per chi tifa?
«Preferisco la C alle vittorie sporche. E sono juventino».
Stavolta, non è un ossimoro.
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