da Roma
Solo nel 2004 si sono uccisi in ventiquattro buttandosi giù dal Golden Gate. Sessantotto i metri tra la strada sospesa e l'acqua gelida della baia, quattro i secondi per l'impatto mortale. The Bridge, il documentario di Eric Steel, è uno shock salutare. Anche se lo vedi con un senso crescente di pena e di ansia, unito a una punta di morbosità. Lì per lì non capisci. L'uomo che appare nell'incipit, ripreso col teleobbiettivo, sembra un normale pedone. Invece eccolo, di colpo, issarsi sul parapetto, farsi il segno della croce e lanciarsi, fino a scomparire tra i flutti. Quasi nessuno sopravvive. Per un anno la troupe di Steel ha «spiato» con due cineprese strategicamente piazzate il mitico ponte di San Francisco costruito nel 1937. Un intrico meraviglioso di ferro e cavi, un monumento all'ingegno umano, e insieme il luogo al mondo più frequentato dai suicidi. «It happens all the time», spiega il poliziotto abituato a solcare avanti e indietro i due km: con l'esperienza, ha imparato a riconoscere il jumper, a cogliere incertezze e intenzioni, nella speranza di abbracciarlo da dietro, prima che sia troppo tardi. Dice il regista, pur consapevole della scelta espressiva estrema: «Ciò che rende insoliti i suicidi del Golden Gate è che avvengono in piena luce, di fronte alla gente, in un posto affollato, mentre noi preferiremmo che fossero invisibili, consumati nell'intimità di un bagno o di un garage». Proprio così. Eppure The Bridge non è voyeuristico. Nel suo raccontare «la morte al lavoro», spinge a interrogarci sulle vite di quei poveretti (ne vediamo tanti che si gettano, giovani e meno, in tuta da ginnastica e vestiti di pelle, per lo più uomini), per risalire, attraverso le testimonianze di parenti e amici, ai motivi di quel gesto estremo.
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