Politica, siccità, alluvioni, santi, nuraghi, pietre di fiume e colori. Con la pretesa di dipingere i muri per aprire le porte: della creatività, della protesta, dell'identità.
Beni benius a San Sperate, antico abitato nella piana del Campidano, venti chilometri da Cagliari, giù in fondo alla Sardegna, un'isola nell'Isola, piccolo Comune non toccato né dalla superstrada né dalla ferrovia, un centro racchiuso tra il rio Mannu e il rio Flumineddu e una storia sonnacchiosa che inizia nell'età del bronzo e si trascina fino al 1968-69, epoca di immaginazione al potere e rivolte, in cui ne esplode un'altra e cambia tutto. Prima di allora - la rivoluzione dei colori - San Sperate aveva quattromila abitanti e 2300 asini. Oggi 8800 cittadini, niente asini, una produzione fiorente di pesche e fragole, che ormai rendono più degli agrumi, un solo albergo e un pugno di B&B: per ospitare tutti i turisti del mondo che vengono a vedere le case del paese ricoperte da murales, graffiti, interventi di ferromuralismo, bassorilievi... Lo chiamano «il paese museo».
Esiste, dispersa nella memoria, una parola sarda che si scrive barrosia, intraducibile, ma che indica qualcosa di simile a una ostinazione che va oltre il limite della convenzioni. È ciò che si impossessò di Pinuccio Sciola - mani robuste, volto abbronzato e una famiglia di contadini curva sui campi del cagliaritano da generazioni - quando, alla guida di un gruppo di speratini, cambiò volto e futuro al paesino. Era l'estate del Sessantotto, e Sciola non era ancora lo scultore famoso che sarebbe diventato e oggi riconosciuto dentro e fuori la Sardegna (è morto tre anni fa e di lui a San Sperate restano molti murales, un incredibile Giardino delle sculture sonore e un mito che non sbiadisce col tempo): in onore della processione del Corpus Domini si decise di ripulire tutti i muri delle case. Era gente che non sapeva neppure di essere povera perché non aveva mai visto il mondo, ma capiva la differenza tra il fango e la luce del sole. Bastò ricoprire di calce bianca la terra cruda delle case per abbellire le strade e un pezzo della loro vita. Le rivoluzioni - contro il vecchio insegnamento «Lascia il mondo come lo hai conosciuto» - partono anche da qui. Prima i bambini giocano a graffiare i muri bianchissimi col carbone, poi Pinuccio Sciola comincia a dipingere. Subito dopo lo fa qualcun altro del paese, poi quelli di fuori, poi tanti altri. E l'anno successivo San Sperate è già un polo magico di attrazione per artisti che arrivano dalla Sardegna, dal Continente, dalla Germania... Dovunque.
Così la superficie privata diventa spazio pubblico. Succede che un artista arrivi in paese, prepari una bozza del lavoro, la mostri al proprietario della casa, ci si accordi, lo si ospita, si esegue il lavoro, cinque giorni, una settimana massimo, l'artista ne va, l'opera resta finché il tempo lo decide, nessun restauro o manutenzione. «L'opera - semplifica tutto Angelo Pilloni, 74 anni e decine di murales dietro di sé, fra i primissimi rivoluzionari muralisti di San Sperate - non è nemmeno il fine, ma un pretesto per un confronto, per uno scambio col mondo e tutt'al più è un gioco». Che dura da cinquant'anni.
E così tra i fichi e gli ulivi fiorirono i murales. Oggi, nel labirinto di stradine di San Sperate, sono oltre cinquecento. E altrettanti sono già stati portati via dal sole, le piogge, gli interventi edilizi o gli incidenti della vita quotidiana, come i cavallini di Aligi Sassu, strappati, molti anni fa, dalla ruota di un carro al rientro dai campi. Se cammini anche a caso per San Sperate li trovi accanto, davanti o d'infilata. Qualsiasi direzione tu scelga. Lassù un murales sbiadito degli anni Settanta, quando il mondo contadino doveva fare i conti con l'avventura petrolchimica dei «padroni»: un industriale e un pastore muovono pedine a forma di pecora su una grande scacchiera che raffigura la Sardegna. Chi ha vinto? Qui, in piazza Gramsci, il Monumento alla frutta, anno 1975, cemento armato e pesche gigantesche: un omaggio alle radici di San Sperate, che affondano nella terra coltivata. Qua il Giardino megalitico con le sculture antropomorfe e i dolmen di Pinuccio Sciola, al di là del quale, attraversata la strada, sopravvive uno dei primissimi interventi «ufficiali» a San Sperate, 1969, il graffito su cemento - in bianco e nero, sette metri per quattro e mezzo - coi Fichi d'India della tedesca Elke Reuter. Poi arriveranno Meiner Jansen e Otto Melcher, dal Messico José Zuniga e Conrado Dominguez. E poi altri, dal Sud America, dalla Turchia, da Cuba, dal Giappone... In questo fine settimana dal Portogallo arrivano 16 artisti per portare - attraverso l'associazione culturale di San Sperate NoArte - la Biennale d'arte di Cerveira, la più antica della penisola Iberica: Territorios imaginados.
Immaginate un crocicchio di strade dove si intersecano opere di collettivi italiani, di artisti dell'Est Europa, dei ragazzi della Scuola steineriana... Pensate ai lavori più vecchi dei primi muralisti locali che si intrecciano con quelli di giovanissimi street artist e dei writers, come Manu Invisible. Guardate la riproduzione, a facciata intera, della maschera ghignante di origine fenicia trovata in queste campagne, e oggi al museo archeologico di Cagliari. Seguite i fili di lana che (col)legano due quartieri del paese, omaggio alla sarda Maria Lai, ieri misconosciuta oggi arti-star post mortem. E collegatevi con l'opera diffusa di Mehmet Akif Büyükatalay, che ha installato sulla porta delle case di San Sperate dei blocchetti in forex con differenti QR Code per ascoltare sul cellulare le testimonianze registrate della gente del luogo. Era il 2013 e non lo conosceva nessuno. Quest'anno ha vinto a Berlino il premio per il miglior debutto col film Oray.
Memoria, nuove tecnologie, trompe-l'il, contestazioni, culto della terra e architetture illusioniste. Su ogni casa di San Sperate da cinquant'anni colano segni di dolori, colori e lavori.
«Chi is murus podessint fueddai no 'nci iat essi bisongiu de castiai sa televisioni», ammonisce un murales, eleganti caratteri neri in una piccola nicchia bianca. Se questi muri potessero parlare, non ci sarebbe bisogno della televisione.
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