«Per vedere quello che abbiamo davanti al naso serve uno sforzo costante», scriveva ieri Roberto Saviano su Repubblica, citando George Orwell. L’autore di Gomorra, ormai adagiato nel conformismo, questo stesso sforzo non ha voluto compierlo prima di vergare la sua predica (o profezia?) sulla necessità di ribellarsi alla «macchina del fango». Il tono si fa subito visionario: «Bisogna fare uno sforzo che coincide con l’ultima possibilità di non subire la barbarie». Amen.
La «macchina del fango», dice Saviano, si fonda sul gossip e sulla violazione della privacy. Serve a «delegittimare» e «intimidire» gli avversari politici. Umiliarli, controllarli, zittirli. Ingranaggio fondamentale della «macchina del fango» sarebbe il Giornale, reo di avere «organizzato e squadernato il dossier» sugli amori privati di Ilda Boccassini, il pubblico ministero del Ruby-gate. Sono tirati in ballo anche i precedenti: la vicenda Boffo e quella sulla casa di Montecarlo finita nella disponibilità del cognato di Gianfranco Fini. Ne è stato fatto un uso strumentale? Se ne può discutere, non prima di aver allargato il campo senza ipocrisie all’intera stampa italiana. E senza dimenticare che i tre casi citati sono fondati su documenti. La notizia parzialmente scorretta sull’ex direttore dell’Avvenire fu rettificata in prima pagina. Per tornare agli amori della Boccassini, la provocazione era chiara: la privacy è sacra per tutti ma quella dei giudici è più sacra, come testimonia la reazione di Saviano. Che si sveglia solo adesso. Non ebbe nulla da dire quando il suo direttore Ezio Mauro pubblicò per settimane le dieci domande a Silvio Berlusconi sul Noemi-gate, rivelatosi una colossale bufala. E non lo indignano oggi le intercettazioni penalmente irrilevanti sbattute in pagina senza farsi troppi scrupoli perché servono a umiliare il presidente del Consiglio. Il sermone savianesco assume una dimensione grottesca se si guarda al pulpito da cui è recitato. È proprio Repubblica ad aver elevato il gossip ad arma politica contro il premier. Dov’era lo scrittore mentre Giuseppe D’Avanzo trasformava le inchieste in fotoromanzi fondati per intero su pettegolezzi?
Saviano spiega come ha fatto a capire i meccanismi della delegittimazione: «Ho imparato a studiare la macchina del fango dalla storia dei regimi totalitari, come facevano in Albania o in Unione Sovietica con i dissidenti». Sorge spontanea una domanda: Roberto, ma sei sicuro? Perché in Arcipelago Gulag il simbolo della dissidenza Aleksandr Solzenicyn scrive proprio altre cose. Se non hai voglia di affrontare i tre volumi originali editi da Mondadori, ripiega pure sulla eccezionale biografia dedicata al Premio Nobel da Ljudmila Saraskina (Solzenicyn, San Paolo 2010). Lì troverai un’accurata descrizione di come funzionava la giustizia (si fa per dire) in Unione Sovietica. Sai come incastrarono Solzenicyn e tanti altri come lui, ma meno famosi di lui, negli anni di guerra e anche dopo? I servizi intercettavano la posta a tappeto. E sceglievano quali indagini aprire, quale nemico del popolo colpire. Prima si intercetta chiunque con una scusa qualunque, poi si trova il reato: non ti ricorda almeno un po’ la nostra giustizia secondo il rito ambrosiano e napoletano? Tu che hai una laurea honoris causa in Legge, e quindi senz’altro conosci la materia, non hai qualcosa da dire su questo andazzo che molti giuristi, anche con idee di sinistra, ritengono devastante per la nozione stessa di diritto? Non ritieni che sia questo il problema, il vero pericolo per la libertà di tutti (e sottolineo: di tutti, non di Berlusconi)? Evidentemente no, perché tu confondi la giustizia con il sostegno acritico ai pubblici ministeri.
Torniamo all’Urss. Una volta «intercettato», la sorte dell’imputato era segnata. C’era la lettera, assimilata a una «prova» anche se non provava nulla. Trovare testimoni a suffragio degli inquirenti era un gioco da ragazzi. Chi veniva convocato in tribunale sapeva già la risposta giusta e accontentava i giudici per evitare guai ulteriori. Il «mostro» veniva sputtanato sui giornali. Il carcerato era chiuso in una cella poco più grande di una bara fino all’inevitabile confessione. Poi Gulag o confino.
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