Cultura e Spettacoli

Il Saviano russo scala le classifiche (ma la mafia siberiana sa di bluff)

Un libro che non è una provocazione, non è uno scandalo, è un libro che vale poco. Su questo credo che concordino in tanti. Oltretutto, gli autori di letteratura italiana contemporanea si trovano spesso senza niente da dire, ma con la necessità di dirlo a intervalli regolari, magari anche più di una volta all’anno. E vivono crisi di depressione e afasia. E la depressione la fanno venire ai (pochi) lettori. Chi, alla casa editrice Einaudi, ha deciso di pubblicare (è uscito poco più di un mese fa) il romanzo Educazione siberiana di Nicolai Lilin deve aver pensato a tutto questo. Ed ecco apparire dunque una storia a tinte molto vivaci ed esotiche, tanta azione e tanta violenza e un sottofondo umano che strizza l’occhio alla spiritualità. Tutti ottimi ingredienti di una vicenda avventurosa, con un tocco in più che la rende particolarmente commerciabile: l’autobiografia.
Partiamo appunto dall’autore: Nicolai Lilin è un giovanotto, nato nel 1980 a Bender, una città che nessuno di noi conosce, in una nazione che nessuno ha mai sentito nominare perché forse non esiste neanche: la Transnistria. In effetti nessun altro paese ne riconosce l’esistenza politica; quanto a quella geografica, dovrebbe trovarsi ai confini della Russia, da qualche parte a ridosso della Moldavia e dell’Ucraina. Terre di nessuno, avvolte in un romanzesco sipario di oscurità.
Comunque sia, la vicenda si basa sui ricordi del nostro Nicolai, oggi onesto cittadino italiana con residenza vicino a Cuneo e onorata professione di tatuatore (già). Egli stesso tatuato fino al collo, carico di simbologie esoteriche e divulgatore di una sedicente cultura dei «criminali onesti» di origine siberiana.
E qui, francamente, la matassa si imbroglia. Educazione siberiana è un libro scritto in italiano da quello che il linguaggio del politicamente corretto identifica con l’orrida espressione di «scrittore migrante». Insomma, Lilin non è un italiano madrelingua, però rinnega il russo e si esprime in italiano. Niente di male. Lo fa anche piuttosto bene, con certe spigolosità che l’editore si pregia di aver lasciato inalterate per preservarla genuinità dell’originale. Il che fa sorridere gli addetti ai lavori. Tutti sanno benissimo a quali cure di setaccio e pennello venga sottoposto qualsiasi manoscritto, compresi quelli dei professionisti più affermati. Lo stile naif corrisponde all’aspetto acqua e sapone che tanto distingue certe attrici di Hollywood: quello per ottenere il quale ci vogliono almeno cinque ore di trucco al giorno.
Tantopiù che Educazione siberiana è un libro pieno di riferimenti. C’è questa colonia degli «Urca siberiani», che più che un’etnia sono un’accozzaglia di galeotti, in perenne guerra con la polizia. C’è questo quartiere di Fiume Bsso, dove sono trincerati come in certi fortini della camorra nostrana, a farsi gli affari (illegali) loro. E c’è un racconto dettagliato delle gesta criminali del Nostro, che fin dalla preadolescenza e in un clima di sbando dell’ex Unione Sovietica, e ne va in giro con gli amichetti a sbudellare i suoi simili.
«Ero un criminale, è vero», ha dichiarato Lilin in molte occasioni, anche in pubblici incontri cui abbiamo assistito. «Ma un criminale onesto». E su questo ossimoro si è innescato l’interesse, anche mediatico, verso un libro che non convince del tutto proprio perché vanta troppe pretese. «Io non parlo più in russo con nessuno, a parte mia madre e i miei amici intimi», dichiara Lilin, come a voler prendere le distanze da una parte delle sue radici. «Noi combattevamo contro il comunismo e i suoi residui, e contro una polizia corrotta, in uno stato marcio e corrotto». Quel «noi» si riferisce alla sua comunità, dominata da leggi tutte proprie, ancestrali degni di uno studio etnologico, se non altro perché di studi etnico-geografici sulla Transnistria non ce ne sono.
Botte da orbi, rapine, massacri, spezzettamento di cadaveri e loro occultamento, il tutto al riparo di una famiglia allagata con zii e nonni che si chiamano Kuzja e sono sopravvissuti addirittura alla fucilazione oltre che a decenni di carcere duro, sempre più determinati nella loro ostinazione a delinquere. Tutto questo è romanzesco come nelle storie dei Pirati e dei Corsari di Salgari.
Se dobbiamo credere a Nicolai, abbiamo di fronte, in lui, un pluriomicida e una belva assetata di sangue, però, per virtù antropologica e per provenienza etnica, «onesta» e perciò buona e degna di vendere molte copie del suo libro.
L’aggrovigliato sistema morale di questi «Urga siberiani», chiunque essi siano, è spiegato con dovizia di particolari nelle quasi 350 pagine del libro. Che offrono anche qualche momento di noia, dove viene meno l’azione delinquenziale e le si sovrappongono i motivi più religiosi e spirituali. «Sono un credente», dice di sé l’autore. E rafforza il concetto tatuandosi croci sull’epidermide e vantando una collezione di sacre icone.
Ma tra sangue e proiettili, coltellate e agguati nei parchi, il libro sembra la versione splatter dei Ragazzi della via Pal. Con un’appendice (e un eventuale seguito) nella guerra in Cecenia, che il nostro dice di aver combattuto per forza dalla parte russa, ovviamente coprendosi di massacri, ma sempre con una forte consapevolezza spirituale.
Adesso Lilin è in piena rampa di decollo. È anche andato a trovarlo Roberto Saviano, con la scorta anticamorra, che si è bevuto di gusto i suoi racconti e ce li ha restituiti, distillati dalle pagine di Repubblica, come un condensato di nobile spirito guerriero sfortunatamente e suo malgrado trovatosi a seguire la via di un codice mafioso. Come dire: la mafia è una schifezza, ma se è siberiana e te la racconta un muscoloso e scaltro giovanotto tatuato, è un po’ meno schifezza.
E poi dicono che il crimine non paga.
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pbianchi.it

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