Spettacoli

"Alla Prima della Scala sono lo zar Boris: un ruolo in cui risuona la voce del padre"

Il cantante russo è alla sua sesta apertura milanese, in un'opera "su misura" per lui

"Alla Prima della Scala sono lo zar Boris: un ruolo in cui risuona la voce del padre"

La ragione per cui il 7 dicembre la Scala apre la stagione con Boris Godunov, opera di Musorgskij tratta da Puskin, è perché c'è lui: il russo Ildar Abdrazakov, 46 anni, alla sua sesta prima della Scala, intelligenza interpretativa che si sposa con una grande voce e presenza scenica. Senza Abdrazakov, Boris non s'ha da fare, chiarirono all'accendersi della scintilla il direttore musicale Riccardo Chailly e il sovrintendente Dominique Meyer. È un'opera cucita attorno al protagonista, ai suoi dilemmi di governatore, alle crisi di coscienza e follia che nella scena ultima viene squarciata da un lampo di lucidità: il sipario cala sullo zar Boris che mette in guardia il figlio, erede al trono, dalle congiure dei boiari e dai tradimenti dell'esercito, sprona il giovane Fedor ad amministrare la giustizia con rettitudine, «conserva la tua purezza», il monito.

Una scena intensissima. Come ne esce?

«Provato. Anche perché prima c'è il dialogo concitato con Sujskij, sembra l'incontro di due fulmini. Boris sente che sta per morire e si rammarica perché non ha avuto neppure il tempo di pregare, si rivolge al figlio con grande sentimento. La potenza ed energia dello zar Boris cede alla debolezza dell'uomo che chiede aiuto a Dio».

La Chiesa è onnipresente in Boris. Il termine «Dio» viene pronunciato più di trenta volte. Lei che rapporti ha con la fede?

«Vengo dalla Baschiria, una regione musulmana. In realtà mi sento libero, ho una mia idea di divino, e se vado in chiesa non è per chiedere aiuto, semmai per ringraziare».

Chiesa o moschea?

«Chiesa perché ci sono le icone cui rivolgersi».

Di cosa è grato in questo momento?

«Di essere nuovamente alla Scala. Canto ovunque però questo è un teatro speciale per me, penso all'intera macchina teatrale dal sarto ai musicisti ai tecnici di palcoscenico. In fondo sono tutti un po' artisti, sicuramente appassionati d'opera».

La sua prima volta in palcoscenico?

«Nella mia città, Ufa, a 14 anni come comparsa nella Carmen di Bizet. Mia mamma mi prendeva in giro perché ero alto e magrissimo, diceva che si vedevano solo le orecchie».

È alla sua quinta produzione di Boris. La prossima è a Monaco e la precedente a Vladivostok: tra l'altro strepitosa nella direzione di Valery Gergiev, così dai video in circolazione.

«Era un cast tutto russo. Sujskij sembrava un serpente».

C'era poi Stanislav Trofimov, siete entrambi della Baschiria.

«E vedrete come fa la scena della taverna! Stanislav ha poi una storia speciale, è stato sacerdote, ed ironia della sorte a Vladivostok era il monaco Pimen, qui invece è Varlaam».

Alla Scala il cast è russo al 70 per cento.

«È importante conoscere la lingua russa in quest'opera. Capita spesso che la parola prevalga sul canto, la difficoltà del Boris sta proprio nell'equilibrio fra melodia e parlato. Il cast scaligero è internazionale, ci sono colleghi da Estonia, Polonia, Norvegia, Austria e un tenore dall'Ucraina».

Non è facile essere artisti russi oggi, si parte dalle questioni pratiche.

«Finché si sta nei teatri va tutto bene. Poi esci e nascono le difficoltà per le carte di credito che non vanno, non sai dove depositare lo stipendio, impossibili i viaggi diretti».

Ci sarà la sua famiglia alla Prima?

«Verrà mia moglie, ma non i figli perché vanno a scuola e all'asilo».

Le chiesero di fare Boris che aveva 26 anni. Saggiamente rinunciò.

«Questo ruolo chiede una certa voce, ma anzitutto l'aver vissuto. Come puoi parlare da padre se non hai avuto figli?».

Come si sente quando le posano la corona in testa, tra l'altro un gioiello di manifattura scaligera?

«Se mi guardo allo specchio, fa un certo effetto, ma quando sono in palcoscenico non mi vedo e non ci penso. Lo sguardo va al pubblico, alla corona dei palchi, al loggione, alla platea».

Chi è Puskin?

«Il nostro Dante. Andavo a scuola percorrendo via Puskin e c'era pure il suo busto. In Russia lo frequentiamo dall'infanzia perché scrisse favole dalle quali sono poi stati tratti cartoni animati che tuttora guardano i miei figli, cartoni pieni di bellezza e di spirito».

Che dire di Musorgskij?

«Il suo è un teatro in musica. Scrive pensando prima di tutto all'aspetto drammaturgico, infatti non ci sono arie, duetti e terzetti. Scrive la musica dall'inizio alla fine come se fosse un film. Mi ha sempre colpito il suo senso ironico, intrigante vederlo prendere in giro i vertici del potere».

Fa qualcosa di scaramantico il giorno di una recita?

«Cerco solo di dormire profondamente, di mangiare bene e di non parlare: non rispondo neppure al telefono.

In questi giorni, poi, sapendo che il Covid ha ripreso a circolare mi tengo lontano dai luoghi affollati per arrivare indenne al Boris».

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