Da Scalfaro a Napolitano, quanti sbadigli a fine anno

Scandagliare nella melassa dei discorsi presidenziali di fine anno è una partita a Master Mind. Quel gioco in cui bisogna indovinare la posizione dei piolini, che hanno sempre quei 6-8 colori. Ecco, con le produzioni in prosa che gli inquilini del Quirinale declamano ogni anno, succede lo stesso: gli ingredienti sono sempre quelli, l’unica emozione è scoprirne l’ordine. Chissà se prima si parlerà di «speranza» e «orgoglio» o di «giovani» e «divario Nord-Sud»?
In molti si sono scandalizzati nel leggere l’editoriale del direttore Vittorio Feltri «Che barba il discorso di Napolitano». Ma da 17 anni il saluto presidenziale è diventato una impepata di frasi fatte come «il leale confronto» tra i partiti e di cliché disarmanti, come il ciampiano «albero della pace». Dall’esordio di Oscar Luigi Scalfaro nel 1992, fino all’ultima prestazione di Giorgio Napolitano, i pistolotti a reti unificate non hanno perso un colpo: argomenti ruminati decine di volte, appelli inascoltati e tono da nenia che concilia l’abbiocco. Un esempio? «Occorre porre mano a quelle riforme e a quelle scelte che non possono più essere rinviate». Parole sante, quelle di Napolitano. Talmente condivisibili che, giusto 14 anni prima, pure Scalfaro le faceva sue, richiamando l’Italia a «un dialogo costruttivo e mai furbo per dare linfa al dibattito sulle riforme, che supera il decennio». Ecco. Quindi ora il dibattito sulle riforme ha più di vent’anni, ha fatto pure la patente e va all’università: lo lasciamo diventare adulto in pace?
Intendiamoci, i temi sono sempre quelli perché l’Italia è sempre lei. Pigra, lamentosa, caciarona, screziata, geniale. Ma è proprio necessario ripetere ogni anno questi ritornelli ogni volta più stantii? Le parole d’ordine, anche nobili, se recitate come i rosari diventano un bla bla vuoto. Il «coraggio», ad esempio, ha fatto la parte del leone nel discorso del 2009. Ma compariva pure nel 2008 e nel 2006. Siamo sinceri, qualcuno potrebbe prendere il microfono a fine anno dicendo: «Chiudetevi in casa per i prossimi dodici mesi che qui tira aria di catastrofe»? Ipocrita come i calciatori che si dicono «d’accordo con l’allenatore» pure se non giocano mai e l’allenatore lo strozzerebbero.
«Coraggio» fa rima con «fiducia», che è come il piatto di lenticchie: guai se manca a Capodanno! Il maggior cultore del concetto è stato Carlo Azeglio Ciampi, che l’ha infilata in ogni suo discorso. Nel 2005 ha invocato «fiducia e speranza»; nel 2004 ha auspicato «il risveglio della fiducia»; nel 2003 ha esaltato «la fiducia che è tutto, è la forza che ci muove». Nel messaggio presidenziale è accettata con gioia, mentre se è il governo a invitare gli italiani alla fiducia, pecca di faciloneria.
Ogni anno la stessa solfa, insomma. Ogni anno lo stesso rito della scrivania, della voce più o meno stentorea, dei buoni sentimenti a prezzo di saldo, dei ringraziamenti tanto ovvi quanto stopposi. Certo, ogni capo di Stato ha dato una sua piccola impronta. Ciampi con i richiami al tricolore e alla Patria, culminati nel «Viva l’Italia!» del 2005 che aveva almeno dato una parvenza di colore alla formalità (anche se un bel «de’» livornese sarebbe stato ancor più apprezzato). Napolitano con una bonomia di fondo senza particolari accenti, che ha nel lapalissiano «bisogna evitare che chi sta male stia peggio» del 2008 una sua splendida dimostrazione. Scalfaro con il suo procedere un po’ a braccio, tra mille domande retoriche (di retorica sentivamo effettivamente una lancinante mancanza), qualche invocazione cattolica - come il celebre «perché, Signore?» del ’98 - e citazioni evangeliche come quella del 1997 sul padre che spedisce i due figli nei campi. Ma al di là delle lievi cifre stilistiche dei tre inquilini del Colle, la sostanza è la stessa dal ’92. E d’accordo che gli ideali e i valori sono a lunga conservazione, ma almeno il cerimoniale avrà una data di scadenza, no?
Non serve un rabdomante per pescare i leit motiv. Crisi, Nassirya, 11 settembre, tsunami: un accenno veloce e via con la noia a ripetizione. «Questo sarà un anno decisivo per la ripresa», dicono dal Quirinale. Chi? Napolitano riferendosi all’anno di grazia Duemiladieci? No, Scalfaro riferendosi al 1994. La ripresa che sistematicamente è possibile «se siamo forti e uniti» (Scalfaro, 1995), se non dimentichiamo «la coesione nazionale» (Ciampi, 2002), «se lavoriamo insieme per superare gli ostacoli e creiamo una realtà pacata non avvelenata dalle calunnie» (Scalfaro, 1996). Ovviamente in nome dell’«interesse generale», Napolitano dixit, e del «bene comune, sì, il bene comune», come lo stesso Oscar Luigi si peritò di sottolineare enfaticamente nei suoi oltre 40 minuti di one-man-show del 1997.
L’Italia risorgerà (Scalfaro, ’92), risorge, è risorta, continuerà a risorgere (Scalfaro, ’98). È un Lazzaro infinito, una fenice un po’ dura di comprendonio a cui il pastore di turno replica la paternale. Il «senso civico», la «difesa del territorio», il «pesante debito pubblico» sono stati cavalli di battaglia per tanti di quegli anni che ora sono bolsi e scossi. Così come il richiamo alla Resistenza nei ricordi di un «19enne partigiano» citato da Napolitano nel 2006, nei ricordi dei «volti dei compagni caduti in giovinezza» (Ciampi, 2001), nei ricordi di Scalfaro che ancora esultava nel ’98 per la vittoria della Dc di mezzo secolo prima.
Senza mai dimenticare «i più deboli», «gli indifesi», «i malati», le donne (e pazienza se Scalfaro - quattro decenni prima di lodarle - avrebbe schiaffeggiato una signora rea di essere troppo scollata). Auguri agli immigrati, ai bambini, a chi soffre, a chi sorride, a chi fa spallucce, al Meridione dimenticato, a chi non ha lavoro. Ora pro nobis. E tutti accodati nel «plauso unanime», nell’«ok bipartisan», con qualche eccezione: da Di Pietro ai leghisti, da Rifondazione a Fini (proprio lui, che nel ’93 definì «deludente» la predica di Scalfaro), c’è sempre qualcuno che si accorge a intermittenza di quanto sia immancabilmente pro-forma il discorso quirinalizio. Con il vertice toccato da Marco Pannella, nel ’96.

A Scalfaro che disse «auguri ai più umili, a coloro che operano cose buone e ai giovani, perché impariate la libertà e siate pronti a pagarla tutti i giorni», il leader radicale rispose: «Con questa predica da Avignone, i doveri del capo dello Stato sono elevati ad una forma di ecclesiastica celebrazione. Che in realtà è una sepoltura».

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