Scambi sul web

D onare. Atto eccentrico, eccezione al circuito economico dello scambio. Eppure, secondo buona parte del pensiero novecentesco, è proprio in quel gesto straordinario che si annida il segreto dell’umano. La realtà postmoderna, globalizzata e informatizzata, complica le cose. Per questo l’antropologo Marco Aime e l’economista Anna Cossetta hanno scritto Il dono al tempo di internet (Einaudi, pagg. 121, euro 10). Di fondo, per rispondere a questa domanda: la sovrabbondanza di «dono» che esonda dalle mille opportunità della Rete (i social network come Facebook o Twitter, i blog, il free software, la conoscenza universale di Wikipedia) è «davvero in grado di creare una vicinanza, un legame, una comunità?». E la risposta, almeno per ora, non può che essere: no. Per ora, nel senso che i due autori non sono affatto dei nostalgici anti-internettiani a priori, sanno che è impossibile tornare al di qua della Rete. Riconoscono che la brulicante attività del web soddisfa un’esigenza di «comunità» sempre più diffusa nella società frammentata. Eppure, al momento di stringere concettualmente sull’analisi dei doni che vengono scambiati nello spazio del Web, notano che esso «è in realtà un cyberspazio, uno spazio mentale, che non permette di condividere l’esperienza in senso pieno». Il dono come quella relazione primigenia Io-Tu scandagliata da Martin Buber, o come quell’apertura totale all’Altro di cui parlava Emmanuel Lévinas, è estraneo alla Rete.
Se guardiamo ad esempio al «file sharing», cioè alla possibilità di scambiare file (musicali, video o altro), l’esito è questo: «Si condividono i propri file con migliaia e migliaia di persone che fanno altrettanto, ma non si sa esattamente con chi». Non si innesca alcuna relazione. Infatti, «più che relazioni si stabiliscono connessioni». Volatili, estemporanee, impersonali.
Il problema si aggroviglia con i social network stile Facebook. L’utente è stimolato a cercare «sempre più contatti», in una sorta di bulimia sociale. Ma «ben pochi sono i rapporti che si consolidano nel tempo, fino a divenire relazioni». È il social network stesso, che è pensato contro l’idea di consolidamento nel tempo: è «un modo di mostrarsi che valorizza la contingenza, il presente». Le passioni e i gusti personali sono risolti in una bacheca, e l’attimo è eretto a stile di vita. Viene spezzata la continuità esistenziale, e soprattutto amputata la relazione, fondamento del dono. Evapora la «dimensione sensoriale», epidermica, della comunicazione, e viene frustrata la «necessità della prossimità fisica», con l’interlocutore e a maggior ragione con il destinatario del dono. Si perde poi la componente «teatrale» dell’atto, quell’insieme di gesti che manifesta il dono come slancio.

Si può giungere a certificare, allora, la «morte del prossimo»? La fenomenologia del dono al tempo di internet ha rivelato «una società paradossale, che pare avere riscoperto la forza e la necessità del dono, ma che non riesce a diventare un fatto sociale totale. L’atteggiamento di chi va in rete è talvolta più simile a quello del consumatore che non a quello del membro di una vera comunità». Così il dono, eccedenza dal mercato, diventa un’offerta, tra le tante, del consumo.

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