Roma - Quel nome, il nome di colui che a lungo - prima di entrare nel cono d’ombra delle inchieste giudiziarie - è stato il suo più stretto collaboratore, Pier Luigi Bersani non lo pronuncia neppure.
Il leader del Pd sapeva bene che quello sul caso Penati e sulla «questione morale» era il passaggio più atteso del suo comizio conclusivo alla festa del partito in quel di Pesaro.
Atteso dagli osservatori esterni ma anche dei suoi: giusto ieri, dalle colonne di Europa, che del Pd è quotidiano, il direttore Stefano Menichini lo invitava a «chiarire i dubbi» e «far sparire le ombre», anche perché «se un leader si valuta anche per le persone di cui si circonda, il caso Penati investe in effetti Bersani e anche quella concezione di partito di apparato all’ombra del quale certi comportamenti hanno potuto diventare prassi». Mentre i sondaggi iniziano a registrare in modo preoccupante l’impatto che sull’opinione pubblica sta avendo l’affaire Sesto, rosicchiando giorno per giorno il vantaggio che il segretario del Pd si sentiva in tasca dal giorno della vittoria del centrosinistra nelle amministrative.
In questi giorni, Bersani ha limato e rilimato il discorso, discutendone coi suoi collaboratori e pesando parola per parola quel che andava detto ai tanti militanti smarriti dalle nubi di accuse e sospetti che si sono addensati sull’ «apparato» ex Ds, rilanciate anche da ex amici e compagni di strada (vedi Fabio Mussi). E alla fine ha deciso di giocarla tutta in difesa, rispolverando l’orgoglio della «diversità» (sia pur specificando che «siamo diversi non per cromosomi, ma per scelta politica e civile»); tuonando che «accettiamo le critiche, ma le aggressioni no» e che «chi fa circolare vere bufale e teoremi assurdi si prenderà le nostre denunce»; giurando che «non passerà il tentativo di metterci tutti nel mucchio». Ma pattinando sul ghiaccio sottile dei fatti concreti senza entrare nel merito. E senza pronunciare il nome di Filippo Penati. Con la promessa di «regole più stringenti» e «passi indietro» per tutti i democrat colpiti da inchieste.
Il nome lo fa invece Piero Fassino, assente ieri a Pesaro, ma intervistato da Repubblica. E a leggere in controluce lo scambio di messaggi interni tra i dirigenti Pd, si coglie, tra le righe, un reciproco passarsi la patata bollente. Se dal campo bersaniano, nei pour parler, non si perde occasione di far notare che nell’epoca dei fatti per cui Penati è indagato il segretario dei Ds era appunto Fassino, il sindaco di Torino non manca di sottolineare che l’ascesa nazionale di Penati non è certo avvenuta sotto la sua leadership, finita nel 2007. «Si dice sempre che Penati era capo della segreteria di Bersani. Ma in che anni? Nel 2009, vogliamo dirlo?», si chiede retoricamente su Repubblica. Dunque in epoca decisamente fuori dalla sua giurisdizione politica.
Fassino è furioso per le accuse di Mussi, e lo si può ben capire visto che fu lui a vincere nel 2001 le assise Ds su cui l’ex ministro ha sollevato dubbi: «Mussi sa benissimo che non ci facciamo pagare i congressi da nessuno. Non ci sto a questo processo. Non mi va bene che si dia da pensare che abbiamo tutti preso soldi. Io, in 40 anni di vita politica, non ho mai preso una lira», si sfoga. Quanto a Penati, Fassino lealmente evita il disconoscimento postumo: «Lo conosco e lo stimo come dirigente, e non ho mai avuto la sensazione che attorno a lui ci fosse un sistema». E però ribadisce il teorema su cui si fonda l’autodifesa di Bersani e dell’intero Pd: se Penati ha sbagliato, lo ha fatto in proprio e non per il partito. «Escludo che agisse per conto di altri, che ci sia stato un sistema».
E si scalda, negando ogni «connessione» tra caso Serravalle e scalata Unipol: «Mi sono rotto l’anima di questa confusione un tanto al chilo», non si può fare «di ogni erba un fascio». La corruzione della destra resta «diversa» da quella della sinistra.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
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