Scatta la solidarietà bipartisan «Atto vile, nessuno ci fermerà»

OPPOSIZIONE Il Pd parla di «fatto allarmante estraneo alla politica». Il Pdl replica: insistere col linciaggio istiga alla violenza

Scatta la solidarietà bipartisan «Atto vile, nessuno ci fermerà»

RomaContiene un ultimatum, che scadeva alle 23,59 di venerdì scorso, la lettera di minacce al premier Silvio Berlusconi, al presidente della Camera Gianfranco Fini e al leader della Lega Umberto Bossi recapitata ieri per posta alla redazione del Riformista. Entro quella scadenza i tre leader politici avrebbero dovuto abbandonare l’attività politica e Berlusconi si sarebbe dovuto consegnare «alla giustizia comune» altrimenti la sentenza della giustizia comunista sarebbe stata «inevitabile». Il comunicato, firmato con la stella a 5 punte e con la sigla «Brigate rivoluzionarie per il comunismo combattente», risulta essere stato spedito da Milano l’8 ottobre, cioè l’indomani della bocciatura da parte della Consulta del Lodo Alfano.
Contiene un’analisi della situazione politica italiana dopo la decisione della Corte Costituzionale e si conclude con la richiesta di dimissione di Berlusconi, Fini e Bossi «per evitare una rivoluzione armata come a Cuba». I mittenti assicurano però che non intendono ricorrere «a bombe o coinvolgere innocenti» e che non verranno toccate le province dell’Aquila e di Messina. «Si tratta di un’analisi molto ingenua - spiega il direttore del Riformista, Antonio Polito - anche se si rifà alla stretta attualità». Gli estensori della missiva avvertono: «Berlusconi, Fini e Bossi (definito il “capo delle nuove camicie nere”, ndr) se volete evitare un nuovo 8 settembre dimettetevi entro le 23,59 del 16 ottobre» (il riferimento è probabilmente all’armistizio dell’8 settembre 1943, quando l’Italia fu invasa dai tedeschi e il re fuggì nel sud Italia, ndr). Polito ha consegnato la lettera alla Digos, ma gli investigatori sono piuttosto scettici sull’attendibilità del suo contenuto. La sigla «Brigate rivoluzionarie per il comunismo combattente» era apparsa per la prima volta ai primi di ottobre in una lettera arrivata ai quotidiani Il Foglio, Il Messaggero e il Fatto Quotidiano. Anche in quel caso si inneggiava alla rivoluzione e si diceva «no al golpe». Berlusconi apprende della lettera di minacce mentre è a Palazzo Grazioli. Si affaccia alla riunione dei vertici del Pdl, dove si sta scegliendo il candidato alla presidenza della Campania, e rassicura i presenti: «Continuerò a fare il mio lavoro come sempre». Per Fini, invece, il comunicato è «palesemente il delirio di un folle. Auspico - dice - che non si apra un dibattito sul nulla».
Immediata solidarietà bipartisan. Anche dall’Anm: «Ci mancherebbe altro - dice il presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara -, siamo contrari a ogni forma di minaccia e di violenza». «Il destino e il futuro del governo Berlusconi - commenta il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini - verranno decisi dagli italiani, non certo dalle intimidazioni di violenti e terroristi». Il presidente dell’Udc Rocco Buttiglione invita «ad affrontare i problemi del Paese invece che pensare solo ad accusare e delegittimare l’avversario». Solidarietà anche da Massimo D’Alema, secondo il quale «la politica non può cadere nella spirale di violenze verbali e nello scambio di accuse reciproche». Per il capogruppo del Pd al Senato Anna Finocchiaro «non c’è polemica né dibattito politico, anche aspro, che giustifichi atti vili come questo». Concetto espresso anche in una nota diffusa dal Partito democratico: «Minacce e violenze sono un fatto grave e allarmante del tutto estraneo alla politica». Una «condanna senza se e senza ma» arriva da Ermete Realacci (Pd) che riduce tutto al gesto di «alcuni scriteriati». Jole Santelli, del Pdl, mette in guardia dall’avvio di «una nuova stagione di veleni».

Enrico La Loggia, vicecapogruppo del Pdl alla Camera, parla invece di «ignobili minacce che non fermeranno il governo». Per il ministro della Gioventù Giorgia Meloni quanto accaduto «dimostra che insistere con il continuo linciaggio contro la parte maggioritaria del Paese rischia di degenerare nella violenza».

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