Prima hanno alzato le mani, adesso alzano pure la voce. Ridotta al silenzio la rivolta tibetana, i cinesi inaspriscono i toni rifiutando qualsiasi apertura, minacciando di stroncare eventuali nuove proteste e replicando duramente al presidente della Camera dei Rappresentanti statunitense Nancy Pelosi, colpevole di aver proposto un'inchiesta internazionale sui fatti del Tibet e di aver definito la repressione «una sfida alla coscienza del mondo». La linea più dura è quella del Quotidiano del popolo. Rispolverando toni da «rivoluzione culturale», l'organo ufficiale del Partito comunista invita in un editoriale a spazzar via i monaci, gli indipendentisti e chiunque si opponga al dominio cinese sul «tetto del mondo».
«La Cina deve schiacciare con risolutezza la cospirazione del sabotaggio e schiacciare le forze dell'indipendentismo», scrive il quotidiano spiegando che «un miliardo e trecento milioni di cinesi, tra cui lo stesso popolo tibetano, non consentiranno a forze o individui di compromettere la stabilità della regione». Minacce e avvertimenti sono seguiti dalla promessa di ignorare ogni richiesta d'apertura promossa dall'Occidente. In questo nuovo braccio di ferro il presidente della Camera statunitense diventa uno dei principali nemici. Il portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, pur non nominandola direttamente, accusa l'esponente democratico statunitense di violare tutti i principi delle relazioni internazionali. Lo stesso portavoce invita i Paesi stranieri a «respingere ogni incoraggiamento e ogni appoggio agli schemi secessionisti del gruppo del Dalai Lama».
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