RomaQuello che per un mese è stato solo uno dei rumors di Palazzo, alimentato dagli sfoghi privati di Silvio Berlusconi e dalle frizioni sempre più dure con Gianfranco Fini, entra ora a pieno titolo nel dibattito politico. Ad evocare lipotesi delle elezioni anticipate, infatti, non sono più le ricostruzioni dei giornali e il tam tam del Transatlantico, ma il presidente del Senato Renato Schifani, convinto che nel caso venga meno «la compattezza» della maggioranza «il giudice ultimo non può che essere il corpo elettorale». Unuscita, quella di Schifani, riflettuta e limata nel più piccolo dettaglio, che è sì un messaggio politico chiaro al presidente della Camera ma ha pure un suo valore istituzionale nei confronti del capo dello Stato a cui spetta la decisione ultima su un eventuale scioglimento delle Camere. E che fa il paio con le indiscrezioni che filtrano sullumore nero del Cavaliere, deciso a «non escludere alcuna ipotesi».
Nel suo intervento allinaugurazione dellanno accademico del collegio Lamaro-Pozzani, Schifani è schematico e didascalico quanto basta da mandare un messaggio piuttosto eloquente: «Compito del governo è lavorare per realizzare il programma. Compito della maggioranza è garantire che in Parlamento il programma del governo trovi la compattezza degli eletti per approvarlo. Se questa compattezza viene meno, il risultato è il non rispetto del patto elettorale. Se ciò si verificasse, giudice ultimo non può che essere, attraverso nuove elezioni, il corpo elettorale». Rispetto ai rumors, dunque, una decisa accelerazione.
Che Fini non gradisce affatto, riservando rigorosamente in privato commenti decisamente coloriti sulluscita di Schifani. Una presa di posizione che lex leader di An considera «unincredibile forzatura» e che scatena i cosiddetti finiani. Fabio Granata punta il dito contro «il partito caserma» e «la sindrome del complotto», mentre Carmelo Briguglio parla di «analisi non sempre lucidissime», bolla Schifani e i consiglieri del premier come «più realisti del re» e definisce lipotesi di tornare alle urne «un vero e proprio azzardo» perché «ammesso che si facciano o si facciano fare» (riferimento non casuale al Quirinale) si «possono sempre perdere». Quanto il Pdl sia vicino al caos lo si coglie dalla replica di Denis Verdini, uno dei tre coordinatori del Pdl. «Il Pdl - dice - non deve essere una caserma ma neanche un bordello dove ogni giorno cè chi apre bocca e gli dà fiato». Un messaggio indirizzato a Granata e Briguglio, ma pure a Italo Bocchino (sul caso Cosentino) e Benedetto Della Vedova (sul biotestamento). Guarda caso, quattro finiani doc.
Cresce, intanto, il malessere degli ex di An nei confronti del presidente della Camera. Tanto che in Transatlantico Alberto Giorgetti, Roberto Menia e Mario Landolfi nei capannelli non nascondono perplessità sui continui distinguo di Fini. Al punto che il romano Francesco Aracri lo dice chiaro: «Io sto con Berlusconi, almeno si capisce cosa vuole. Nel Pdl non cè più nessuno che va in strada, Gianfranco dovrebbe pensare a pedalà». Maurizio Gasparri, invece, torna sul processo breve e sullesclusione dei reati di immigrazione: «Tutti sapevano, anche Fini». Mentre tre big del calibro di Ignazio La Russa, Gianni Alemanno e Altero Matteoli stanno lavorando a uniniziativa che isoli i cosiddetti «ultrà» e dica basta «alla politica degli avvocati». «Se Berlusconi dà troppo retta a Ghedini - è il succo del ragionamento - Fini si sta facendo circuire dalla Bongiorno». E detto da tre ex An è difficile non interpretarla come una presa di distanza.
Da Palazzo Grazioli, invece, tace Berlusconi. Che però benedice laffondo di Schifani, soprattutto nel passaggio sulla lealtà.
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