Schumi, Lippi e Armstrong Fallisce l’operazione revival

Riflessione di mezza estate: a volte ritornano, ma non è una bella idea. Se esiste un filo rosso capace di unire quest'ultimo scorcio di storia umano-sportiva, ricucendo ambienti e personaggi tra loro diversissimi, è il penoso fallimento dei grandi revival. Meglio: dell'ambizione di perpetuare anche in una seconda vita gli stessi trionfi, le stesse emozioni, la stessa epica della prima vita. Lippi, Armstrong, Schumacher: tre ritorni, tre disastri. Vagando tra le rovinose macerie dei miti infranti, inutile dire adesso che avrebbero fatto meglio a restare dov'erano. In tanti l'avevano detto loro anche prima, ma non è servito a nulla. Dev'esserci una pulsione autodistruttiva, in certi grandissimi: qualcosa che scarta e strapazza la saggezza, per lasciare campo libero alla suadente prepotenza dell'Ego.
Eccoli qui, ridotti in poltiglia dalla loro ambizione di eternità. Lippi era il cittì mondiale, l'erede di Pozzo e di Bearzot, terzo monumento della storia azzurra, lui ancora più grande per la complementare sequela di successoni anche nelle competizioni per club. Ora ha tolto il saluto a quasi tutti, fa il malmostoso con il mondo intero, gira al largo (in barca) e comincia a dare chiari segni di misantropia. Per contraccambiare, i suoi ex adulatori lo coprono di accuse, i comici gli dedicano canzoni irridenti e grandi aziende usano queste canzoni come spot sulle televisioni nazionali. Perfino il trionfo di Berlino, dopo la frana sudafricana, comincia a perdere brillantezza: sono già in tanti a dire che in fondo, nel 2006, Lippi ha avuto solo una fortuna sfacciata…
E Schumacher? Era il più grande di sempre, con i suoi sette titoli mondiali. Aveva denaro in quantità disumana, aveva la venerazione del mondo intero, era soprattutto il termine di paragone assoluto per qualunque pilota, vittoria, impresa del futuro. Com'è ridotto adesso? Come lo ricorderemo dall'anno prossimo? Certo, come il grande Schumacher. Ma anche come il patetico babbione che ha tradito i suoi ultrà ferraristi per girare in pista a ritmi da bocciofila. Proprio un'idea geniale, questo ritorno.
Quanto ad Armstrong, più o meno lo stesso discorso (singolare: sette Mondiali per Schumi, sette Tour per Lance). Ripetiamoci: aveva denaro in quantità disumana, aveva la venerazione del mondo intero, era il termine di paragone assoluto per qualunque ciclista, vittoria, impresa del futuro. Il seguito: nei due anni di Armstrong II non risulta una sola vittoria. Si ricorda soltanto l'acida e invidiosa guerra psicologica al suo giovane compagno Contador, il nuovo grandissimo. Ben poca cosa, ben brutta fine, per l'imbattibile del Tour. Battutissimo e pesto, chiude il rientro in un'aula di tribunale, dove dovrà finalmente rispondere alle testimonianze diaboliche di vecchi gregari su doping e festini. Dell'icona a stelle e strisce restano solo pochi cocci, sperduti desolatamente lungo le assolate strade di Francia.
Lippi, Schumacher, Armstrong: lo stesso percorso, lo stesso epilogo. Tutti e tre, qualunque cosa fossero riusciti a fare, non avrebbero aggiunto comunque nulla a quanto già fatto. Quando si arriva ad essere il numero uno, non esiste numero che possa precederlo. Non c'è il numero unissimo. C'è solo il rischio di tornare allo zero.
Perché sono tornati, allora? Perché non hanno resistito alla tentazione? Lo sanno loro. Forse si sono scoperti incapaci di stare giù dalla macchina, dalla bicicletta, dalla panchina. O lontano dal centro del palcoscenico, un po' più soli. Forse non sanno vivere senza quell'adrenalina, unica e particolarissima, che si sono sparati in vena nella prima vita. Ciascuno, nel suo intimo, conosce la risposta vera. Una risposta che può essere pure inconfessabile: come il narcisismo, come la vanità.
Certo non si può dire che l'operazione revival sia fallita per l'assenza dei presupposti fondamentali: autostima, sicurezza nei propri mezzi, determinazione. Da questo punto di vista, c'erano tutte le basi perché i grandissimi riprendessero da dov'erano rimasti, come se niente fosse, più forti del tempo che passa e del talento che si ossida.

Cosa non ha funzionato, allora, si chiederanno per i lunghi anni della loro terza età. Cosa è mancato. Davanti a questo finale seppiato di tristezza e di malinconia, inevitabile la risposta: è mancato soltanto qualcuno che li fermasse.

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