Politica

Scioccante film-verità sulle tredicenni «In discoteca gare di sesso nei bagni»

Il suo maestro Ermanno Olmi esordì nel 1961 con Il posto, delicata storia di un giovane della provincia di Milano assunto come aiuto usciere in attesa che si liberi, per intervenuto decesso, una scrivania da impiegato: la collega Antonietta lo pianta in asso al ballo di San Silvestro organizzato dal Cral aziendale. Il film-verità che il regista Marco Pozzi s’è trovato a girare suo malgrado 45 anni dopo, raccogliendo le confessioni delle adolescenti del terzo millennio davanti a una videocamera, racconta di un altro posto, la discoteca, dove la domenica pomeriggio queste ragazzine della provincia lombarda non vanno per ballare bensì per cimentarsi in una gara scioccante: vince colei che riesce ad avere più rapporti sessuali con ragazzi sconosciuti abbordati nei bagni. Ma rapporti di un unico tipo: orali. Benché una volonterosa stagista della Casa Bianca e un disinvolto presidente degli Stati Uniti si siano dati parecchio da fare per sdoganare quella che nel lessico medico-forense viene definita irrumazione e nel gergo comune assume grevi sinonimi pneumatici, capisco che la notizia è alquanto ripugnante. Ma così va il mondo. Gli animi sensibili se ne facciano una ragione oppure interrompano qui la lettura.
Il primo a provare un certo disagio nel trattare l’argomento è proprio lui, Pozzi, se non altro perché s’è laureato in lettere alla Cattolica («30 e lode in uno dei tre esami obbligatori di teologia, dato con l’attuale vescovo di Como, Alessandro Maggiolini») e ha appena finito di girare, per conto della Pangea, una fondazione no profit, lo spot della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne che sarà celebrata il 25 novembre. Anche se qui, a ben vedere, non v’è alcuna violenza: le ragazze che il regista ha incontrato, anzi, si dedicano alla degradante pratica per rivendicare una supremazia sui maschi, ridotti come in un videogame a bersagli da abbattere mediante estenuazione sessuale.
Marco Pozzi non è un autore di film a luci rosse. Semmai un cesellatore di piccoli gioielli cinematografici. I suoi cortometraggi Cuore di mamma, Calze nere, Assolo, Doom e Cra-cra sono stati premiati alla Mostra del cinema di Venezia e ai Festival di Clermont Ferrand, Teheran, Valencia e Montreal. Il suo primo lungometraggio, 20 Venti, presentato in anteprima al Festival di Berlino, s’è classificato primo per la fotografia e la musica al Film festival di New York, ha ottenuto il premio della giuria dei critici internazionali al Festival di Annecy ed è stato dichiarato il miglior film italiano del 2000 dal mensile specializzato Duel, diretto da Gianni Canova, docente di storia e critica del cinema alla facoltà di scienze della comunicazione dello Iulm di Milano. Nella stessa università Pozzi insegna regia.
Nonostante in Assolo abbia saputo recuperare con grazia archeologica una sorprendente Isa Barzizza, l’attrice preferita di Pozzi è più giovane di mezzo secolo: Anita Caprioli. Ne aveva anche un’altra: Beatrice Macola. Un ictus se l’è portata via a 36 anni. Aveva prestato il volto a Ingrid, quella fascinosa cavallerizza che compare in Schindler’s list al fianco dell’amante Oskar Schindler e piange osservando dall’alto della collina il rastrellamento nazista degli ebrei nel ghetto di Cracovia. «Ma per chi mi avete preso? Ho lavorato con Steven Spielberg, io!», protesta infatti la Macola in una crudele scena di Doom, interamente girato attraverso il videocitofono da un regista squattrinato che non dispone di meglio per sottoporre a un provino le attrici. Una parabola delle angustie in cui si dibatte il cinema indipendente e che costringono Pozzi, nato a Venegono Superiore (Varese) il 7 ottobre 1964, a ingegnarsi girando sit-com televisive e spot pubblicitari per Microsoft, Telecom, Honda, Motta e altre grandi aziende.
Parente di Moana Pozzi?
«L’unica parentela alla lontana è con Antonia Pozzi. Abitava a Milano in via Mascheroni. Si uccise a 26 anni, nel 1938, ingerendo barbiturici. Era la poetessa della semplicità: “Se qualcuna delle mie parole ti piace / e tu me lo dici, seppure solo con gli occhi / io allora arrossisco / come una mamma giovane / cui un passante dice che il suo bambino è bello”».
Tenera.
«Eugenio Montale, da viva, la definì la più grande poetessa. Vorrei dedicarle un film».
Però il suo 20 Venti ha per protagonista una pornostar e lei vi compare come regista di film hard.
«L’ha visto? Non può averlo visto, perché è stato proiettato solo all’estero. La produzione era così povera che s’è dimenticata di presentare le pratiche al ministero dello Spettacolo per il visto. M’interessava un confronto tra caratteri femminili: la pornostar contrapposta a una giornalista. Alla fine risultano indistinguibili».
Càpita anche nella realtà.
«Ho conosciuto la realtà attraverso l’universo femminile. Sono cresciuto in una famiglia matriarcale. Mio padre è morto a 42 anni, io ne avevo 7. Dall’età di 14 ho sempre avuto la fidanzata».
In Assolo e in Doom recitano solo donne.
«La mia ossessione. Esistono due tipi di attrici: quelle che vogliono capire, le più pericolose, e quelle che sono materia, plastilina. Beatrice Macola, in Doom, non sapeva quello che stava facendo. Le avevo solo detto: fammi un incrocio fra Marilyn Monroe e Titti il canarino. Ed era straordinaria».
Com’è arrivato a fare cinema?
«Per merito dei padri somaschi di Como. Rimasto orfano, fui ammesso come interno nel collegio Gallio. Quando la mattina suonava la campanella, avevamo dieci minuti di tempo per indossare la divisa, rifare il letto e presentarci con le scarpe lucide, mentre gli altoparlanti diffondevano Beethoven e Chopin. Mi hanno fatto odiare la musica classica, ho ricominciato ad ascoltarla solo da 15 anni. Il mio pensiero fisso era scappare. Fuggivo in continuazione per ritornarmene a casa».
E che c’entra col cinema?
«L’unica volta che rimasi in collegio, ci proiettarono I quattrocento colpi di François Truffaut in 16 millimetri. Ero in prima media. Per me, abituato ai sandaloni, i film mitologici con Ercole e Maciste impersonati dallo Steve Reeves di turno, fu una folgorazione. Mi si aprì un mondo. Finito il liceo classico, avrei voluto frequentare la scuola di regia a New York. Poi per anni feci la spola con Roma, assistente volontario dei grandi vecchi, da Mario Monicelli a Nelo Risi. Fino all’incontro fondamentale con Ipotesi cinema, la scuola che Ermanno Olmi aveva aperto a Bassano del Grappa».
Che cosa le ha insegnato Olmi?
«Il senso e la moralità dello sguardo. Mi ha insegnato a vedere ciò che sto guardando. È stato determinante per la mia formazione, anche in negativo: ho imparato quello che non volevo essere come regista. Di autori come Olmi, che escono dalla medietà, ne nasce solo uno per generazione. Da anni cerca inutilmente un erede, senza rendersi conto che il suo genio è, e resterà, irripetibile. Quante facce mi ha fatto filmare alla stazione Centrale di Milano! È stato Olmi ad abituarmi a tenere sempre accesa una telecamera mentre interrogo le persone per un film».
La video-inchiesta sugli adolescenti è nata così?
«Esattamente. Mi ero accorto che i miei studenti dello Iulm parlavano tanto di amore ma raramente di sesso. Possibile? Non ci siamo sempre detti che questa generazione è fin troppo disinibita? Dovevo capirne di più. Ho cominciato a girare una serie di interviste. I racconti che ne sono venuti fuori mi hanno sconvolto. Pensavo che certe cose potessero accadere solo a Melissa P. o nella fiction, nella pura invenzione, insomma».
Invece?
«Mi sono imbattuto in una realtà che va ben oltre: il sesso inteso non più come conoscenza dell’altro ma come strumento di misura delle relazioni interpersonali. Le adolescenti si cimentano nelle fellatio in serie all’unico scopo di sentirsi accettate dal gruppo. Cercano la leadership: sono meglio di te perché riesco a soddisfare un maggior numero di ragazzi. Mi raccontavano di queste maratone sessuali nei bagni delle discoteche come se la cosa non le riguardasse».
Ma che età hanno?
«Dai 13 ai 16 anni».
Dove abitano?
«Per lo più nelle province di Milano, Varese e Como».
E si sono fidate a lasciarsi filmare mentre parlavano di vicende tanto scabrose?
«Ho garantito loro che il materiale mi serviva solo per stendere una sceneggiatura».
Quante interviste ha raccolto?
«Tra femmine e maschi, una quarantina».
Come fa a essere sicuro che non siano mitomani? Magari le hanno descritto esperienze irreali per smania di protagonismo o per prendersi gioco di lei.
«È un’ipotesi che avevo messo in conto, ma che è stata spazzata via da due constatazioni inoppugnabili: le testimonianze di almeno sette adolescenti sono perfettamente coincidenti e nessuna delle intervistate conosceva le altre».
Le conversazioni sono state filmate dentro le discoteche?
«Figuriamoci, già non mi piaceva frequentarle quando avevo l’età di questi ragazzi. No, ho girato in altri luoghi pubblici più tranquilli. Come il caffè della Triennale di Milano, dove nessuno sta a orecchiare, o una vecchia pasticceria sotto i portici di Varese».
Non è facile immaginare delle ragazzine impegnate in una gara di questo genere in mezzo a un via vai di persone. Anche per i risvolti pratici: penso all’abito macchiato di Monica Lewinsky conservato nel guardaroba ed esibito in aula come prova contro Bill Clinton. Accanto alla pista da ballo ci vorrebbe una tintoria.
«Ma lei ha idea di quanti affari loschi si svolgono nei bagni delle discoteche? Sono luoghi peggiori delle dark room o dei club privé per gli scambi di coppia. Io non ci metto piede da 25 anni. Però m’è bastato entrare all’Hollywood, un locale di Milano frequentatissimo da calciatori, attori e modelle, dove si presentava un mio film, per sentirmi male. E senza passare dalla toilette». (Mi sono informato: all’Hollywood, corso Como 15, ogni mercoledì si svolge il Pervert sodoma extreme).
Ma perché dedicarsi proprio a quella particolare pratica erotica?
«Me lo sono chiesto anch’io. Penso che c’entri il rovesciamento delle dinamiche di potere sessuale: non voglio nemmeno sapere chi sei, ti prendo, ti do quello che il frequentatore delle discoteche cerca dalle ragazze, ma con te non scambierò mai neanche un monosillabo. È un modo di aderire a un sogno maschile, avendo però il completo controllo della situazione. La femmina assume il ruolo attivo e il maschio è costretto a quello passivo. Non lo farebbero mai con un coetaneo che frequenta la stessa scuola, perché dove c’è una relazione entra il giudizio. Invece qui siamo in una terra di nessuno, un non luogo frequentato da non persone, in cui prevale l’affermazione sull’altro e sul gruppo».
Come pensa che riescano a superare il disgusto che questi atti provocano nelle loro coetanee?
«È il farsi del male che dà valore alla prova. Come nelle gare di velocità per stabilire chi frena per ultimo prima del muro o del burrone».
Non hanno paura di prendersi qualche malattia?
«Zero».
Nessuna di loro ha un fidanzato cui rendere conto di quello che fanno?
«Nulla di quanto accade viene portato nella vita privata. Non la considerano perversione. Non sono attraversate da sensi di colpa. Parlo da regista di spot pubblicitari: in loro c’è solo la spersonalizzazione propria del consumismo».
Vale a dire?
«Guardo il modo di vestire di mio nipote adolescente: calzoni a mezz’asta, berretto con la visiera girata, scarpe da tennis della griffe giusta. È il modello veicolato dai videoclip, nei quali si vede sempre un rapper che scende da un’auto di lusso, viene subito circondato da un nugolo di belle donne, le spoglia una dopo l’altra, prende questa e lascia quella. Ebbene, si fanno investimenti enormi per promuovere questi comportamenti. I ragazzi indossano certe scarpe non perché sono belle ma perché il gruppo ha decretato così. Lo stesso approccio consumistico viene applicato al sesso. Un sociologo americano la chiama “vita liquida”. Ma quando i fluidi si espandono troppo, tracimano dai contenitori e finiscono da tutte le parti».
I genitori che diranno?
«Leggeranno e commenteranno: “Non è mia figlia, mia figlia non farebbe mai di queste cose!”. E invece qui stiamo parlando proprio di ragazzine di buona famiglia, non di ceti disagiati».
Buona famiglia?
«La famiglia così com’è va distrutta. È un falso mito, un laboratorio nel quale si allevano mostri. Chi crede che ci sia alla guida dei macchinoni che la sera a Milano, in corso Sempione, fanno la coda per raccattare i transessuali? Fior di professionisti padri di famiglia».
Il suo collega Tinto Brass le obietterebbe che se alle adolescenti piace così, perché no?
«L’attività sessuale va inquadrata entro certi ambiti. Purtroppo questa generazione è figlia della coscienza palindromo, 9/11 e 11/9, frutto di due crolli: il Muro di Berlino, 9 novembre 1989, e le Torri gemelle, 11 settembre 2001. Cioè di due forme di vivere civile che erano consolidate».
Ma lei che ha studiato dai somaschi e alla Cattolica si sente più in consonanza con la teologia del corpo di Karol Wojtyla o con la fisiologia del corpo di Tinto Brass?
«Non conosco la teologia del corpo di Wojtyla, ma so già per certo che è più coerente col mio pensiero. Non riesco a vedere la faccenda dal punto di vista di Brass. Se almeno queste ragazzine lo facessero col loro fidanzato... Invece le interviste non hanno nulla a che vedere né col sesso, né col piacere. E interpellano più i padri, che le figlie, sono una spia di malessere della società, non certo di benessere».
Per le adolescenti che cos’è l’amore, lei l’ha capito?
«Un sogno romantico. Sognano d’incontrare il principe azzurro».
Mai nessuna che s’accontenti del cocchiere.
«La Tv mette sul trono il principe azzurro, non certo il cocchiere. Basta aver visto un programma di Maria De Filippi».
Che fa, sputa nel piatto dove mangia?
«Questo Paese ha rinunciato all’elaborazione dell’immaginario collettivo, l’ha delegata al piccolo schermo. L’Italia era grande perché aveva una cinematografia grande: Roberto Rossellini interpretava la realtà e Federico Fellini la reinventava. La Tv ha tradito il suo specifico, che è rappresentarci il qui e l’ora. La diretta ormai viene usata soltanto per raccontare la Tv medesima, non ciò che sta accadendo nel mondo. Raggiunge la sua apoteosi nel reality, imperniato sulla finzione. Si fa credere alla gente che sia la televisione il mondo vero. E allora io le chiedo: per una ragazzina cresciuta con questi codici perché non dovrebbe essere vero un mondo dove la domenica pomeriggio si fa la gara dei coiti orali?».
I gestori delle discoteche non si preoccupano per le loro figlie?
«Loro credono, come i produttori di eternit, che la cosa riguardi gli altri. Non sanno che è questa la globalizzazione, fatta di cellule osmotiche peggiori dell’amianto».
Che direbbe il suo maestro Olmi vedendo la video-inchiesta?
«Gli interesserebbe molto, perché a lui stanno a cuore i giovani e la bellezza. E la giovinezza si porta sempre dietro la ricerca spasmodica della bellezza, dell’armonia».
Se si proiettasse in discoteca L’albero degli zoccoli a questi adolescenti, come pensa che reagirebbero?
«Scapperebbero via, mi verrebbe da rispondere. Ma poi penso invece che resterebbero ammaliati da quel mondo, tanto è diverso dal loro. Forse piangerebbero».
(343. Continua)
stefano.

lorenzetto@ilgiornale.it

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