Da La Russa a La Rissa il passo è breve, il ministro stesso ci ha messo del suo con l’improvvido «vaffa» lanciato contro Gianfranco Fini che ha scatenato la bagarre alla Camera. Un errore pagato caro con lo slittamento della legge sul «processo breve» e una fiumana di polemiche.
Pochi minuti prima La Russa aveva sfidato la contestazione organizzata alle porte di Montecitorio, affrontando a viso aperto i dimostranti scalmanati, ma ogni sua parola è stata inghiottita nel vortice di urla e insulti del popolo viola inferocito. Sputi, lancio di monetine, braccia tese nel saluto fascista: un grido echeggiato anche in Parlamento, «fascista di m...» diretto al ministro della Difesa.
Bolgia in aula, bolgia fuori. Sembra una coincidenza, uno di quei casi in cui una scintilla si accende in un luogo e fa propagare l’incendio altrove. Ma forse non è così. Forse c’è una vera strategia della rissa che ha fatto una vittima illustre, proprio La Russa, caduto in una trappola, prigioniero della foga con cui affronta la politica. Se è così, i professionisti della rissa gongolano per il «vaffa» del titolare della Difesa. Un insulto dal destino controverso: se lo urla Beppe Grillo sulle piazze d’Italia diventa un marchio di fabbrica, il legittimo logo dell’anti-politica, l’intoccabile slogan della sacrosanta battaglia contro il Palazzo. Quello dell’ex camerata, invece, è soltanto volgarità, offesa, oltraggio all’istituzione, temperamento sanguigno che diventa sangue cattivo.
Ignazio La Russa doveva risparmiarsi il «vaffa», è fuori discussione. Ciò non toglie che ci si debba interrogare se esista una strategia della rissa. C’è un fronte che sta cercando di trasformare la politica in guerra, di buttare tutto in tafferuglio. Non c’è uscita pubblica di Silvio Berlusconi che non sia accompagnata da contestazioni su misura, puntualmente amplificate dai media. Non c’è intervento parlamentare di Antonio Di Pietro che prescinda da insulti al premier, dallo «stupratore di democrazia» (fiducia di dicembre) al recentissimo «coniglio». Non c’è numero del Fatto Quotidiano che rinunci a definire il capo del governo «nano», «caimano», «cavalier balbetta».
Contro Berlusconi e il centrodestra non c’è più un’opposizione sui contenuti. Tutto diventa un’aggressione «ad personam». Ogni attacco politico si trasforma in attacco personale, fino a brandire le vicende private come manganelli da agitare nei luoghi delle istituzioni. L’altro giorno in piazza Montecitorio si era riunito un migliaio di persone esagitate che ha dato libero sfogo a una rabbia alimentata giorno dopo giorno. Gli è stato consentito di arrivare quasi a ridosso dell’ingresso della Camera. Non poteva essere soltanto frutto di un tam-tam spontaneo, poi culminato nel lancio di monetine e in quella frase «farete la fine di Craxi» che ricorda da vicinissimo la contestazione del 1993 davanti all’hotel Raphael che simboleggiò la caduta della Prima repubblica.
A sinistra, nel Pd, non fanno nulla per frenare la deriva della rissosità. «La situazione ha passato ogni limite, è giusto mobilitarsi», ha esclamato Rosy Bindi tra i dimostranti. Pier Luigi Bersani ha impugnato il megafono salendo sulle transenne, le nuove barricate, per arringare il popolo viola. Nei mesi scorsi Bersani, Vendola e gli uomini di Fini hanno dato manforte ai ricercatori anti-Gelmini scalando i tetti delle università. Gli appelli ad «abbassare i toni» del presidente Napolitano vengono interpretati a senso unico, cioè come tirate d’orecchi a Berlusconi, e non moniti rivolti a 360 gradi.
I discorsi in Aula infuocati subito rilanciati su internet non placano gli animi ma li esasperano.
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